Titolo originale: Bēiqíng chéngshì
Regia: Hou Hsiao-hsien
Paese: Taiwan
Anno: 1989
Genere: Drammatico
Durata: 180'
Lingua: Taiwanese, mandarino, cantonese, shanghaiese, giapponese
Traduzione: Shimamura
Hou Hsiao-hsien
Hou Hsiao-hsien (侯孝賢) nasce a Meixian, nel Guandong, in Cina continentale, nel 1947, ma già l'anno seguente la sua famiglia si trasferisce sull'isola di Taiwan. Taiwan è da poco tornata alla Cina, dopo ben cinquantanni di dominio giapponese [1], e il passaggio di consegne non è facile. Il Giappone ha imposto all'isola regole ferree, e inoltre ne ha influenzato anche usi e costumi, grazie ad una particolare politica di integrazione (c.d. douka). Nelle scuole infatti per cinquant'anni la lingua principale era il giapponese, mentre il dialetto taiwanese (hakka) era relegato ai ricordi ed alle strade. Anche i bambini hanno nomi giapponesi ormai.
In una nazione, che nazione resterà ancora per poco [2], alla ricerca della prorpia identità perduta, cresce il giovane Hsiao-hsien. Nel 1969 si iscrive all'Università Statale delle Arti di Taiwan (國立臺灣藝術大學), e dopo il diploma, nel 1972, inizia a pensare di dedicarsi al cinema.
All'inizio le cose non sono semplici, e Hou si arrangia con più lavori e attività commerciali, ma poi inizia a lavorare come sceneggiatore e assistente alla regia. Scrive sceneggiature per uno dei primi grandi registi moderni del Paese, Chen Kunhou, ed è qui che conosce Chu Tien-wen (朱天文), che diventerà suo collaboratore nella scrittura dei suoi principali film. Sempre negli anni '80 conosce Mark Lee Ping Bing (李屏賓), direttore della fotografia che avrà enorme influenza nella maturazione dello stile di Hou.
I primi successi arrivano con Fēngguì lái de rén (風櫃來的人, The Boys From Fengkuei), nel 1984, e poi l'anno seguente con Dōng dōng de jiàqī (冬冬的假期, A Summer at Grandpa's), entrambi premiati al Festival dei tre continenti a Nantes. Ma il primo riconoscimento internazionale arriva solo a Berlino, nel 1987, con Tóngnián wǎngshì (童年往事, A Time to Live, a Time to Die), girato nel 1985, che vince il FIPRESCI, film bellissimo, seguito ideale di Dōng dōng de jiàqī, dove Hou racconta delle incertezze che appartengono alla giovinezza, della ricerca delle proprie radici e dell'importanza e difficoltà nel compiere scelte per il futuro. Le scelte compiute nel corso della nostra vita sono protagoniste anche nel film seguente, che chiude questa ideale trilogia del regista: Liàn liàn fēng chén (戀戀風塵, Dust in the Wind). Nonostante venga osannato dalla critica è un insuccesso, e Hou è costretto a farvi i conti, girando nel frattempo un film più commerciale come Ni luo he nyu er (尼羅河的女兒, Daughter of the Nile).
Lo stile del regista comunque nel frattempo è maturato: long take, telecamera quasi fissa, che non nasconde una certa influenza ozuiana, mentre sullo schermo scorrono intricate dinamiche; Hou all'inizio è un regista complesso, come lo sono le sue trame, che non seguono necessariamente un andamento cronologico, apparendo spesso ermetiche. Allo stesso tempo il regista ama affidarsi molto ai suoi attori, che sceglie meticolosamente, lasciando che essi improvvisino con naturalezza durante le riprese.
Tutte caratteristiche queste presenti in quello che molti ritengono il suo capolavoro, Bēiqíng chéngshì (悲情城市, A City of Sadness), Leone d'oro a Venezia nel 1989. Al di là della struggente e inequivocabile bellezza del film, A City of Sadness rappresenta per la New Wave taiwanese quello che Rashomon è stato per il cinema giapponese nel 1950: una sorta di biglietto da visita che permise al mondo di conoscere l'esistenza di quella che a tutt'oggi è una delle cinematografie più vivaci non solo del continente asiatico, ma del mondo, aprendo le porte alla scoperta di registi come Edward Yang, Tsai Ming-liang e Ang Lee.
L'attenzione di Hou è fondamentalmente incentrata sulla storia del suo Paese, costretto suo malgrado ad affrontare enormi cambiamenti in poco più di quarant'anni. Lo spaesamento dei suoi personaggi di fronte ad un'identità violata e resa incerta dalla modernità e dalle violenze del regime del Kuomintang sono al centro di un altro dei suoi capolavori, il bellissimo Xì mèng rénshēng (戲夢人生, The Puppetmaster), Prix du Jury a Cannes nel 1993, e Hǎonán hǎonǚ (好男好女, Good Men, Good Women), accomunati a Bēiqíng chéngshì dall'essere ambientati nel periodo che va dal dominio giapponese al c.d. Terrore bianco del Kuomintang.
Nel frattempo lo stile narrativo di Hou diventa sempre più criptico, la sceneggiatura è composta da poche battute, il lavoro alla fotografia dell'ottimo Mark Lee Ping Bing, prima più discreto, porta l'estetica di Hou a livelli nuovi, e questo è evidente già in Hǎi Shàng Huā (海上花, Flowers of Shanghai), del 1998, film magnifico, ambientato a Shanghai all'epoca della dinastia Qing. Il film è un cambio di registro notevole per il regista, e divide la critica per la sua complessità e per la sua straordinaria bellezza. Discorso diverso per Qiānxī Mànbō (千禧曼波, Millenium Mambo) premiato a Cannes, e prima collaborazione del regista con l'attrice Shu Qi. Il film è un viaggio a ritroso negli ultimi dieci anni di vita della protagonista, dal 2011 al 2001, ed è quasi privo sia di sceneggiatura che di un intreccio narrativo, il che rende il film inferiore al precedente nel complesso, ma decisamente più fruibile e pertanto capace di mettere la critica d'accordo.
Nel 2003 Hou omaggia il divino Ozu con l'affascinante Café Lumière, e nel 2005 realizza l'ancor più affascinante e complesso Zuìhǎo de shíguāng (最 好的時光, Three Times), film in tre segmenti composti da tre diverse storie. Il film doveva essere inizialmente diretto da altri due registi, oltre ad Hou, ma la mancanza di fondi portò Hou a decidere di lavorare in solitaria. Se forse Zuìhǎo de shíguāng non può definirsi il capolavoro del regista taiwanese è pur vero che oltre ad essere uno dei suoi film migliori e più acclamati è allo stesso tempo una summa della propria arte, cinema quintessenziale.
Per un decennio Hou ha messo da parte la forma del lungometraggio per realizzare solo qualche corto, ovvero alcuni spezzoni di opere collettive con altri autori. È tornato solo di recente, al Festival di Cannes di quest'anno, dove ha vinto il Premio per la miglior regia con Nièyǐnniáng (刺客聶隱娘, The Assassins), il primo film di Hou dedicato al mondo del wuxia, ed altro punto di rottura e contemporaneamente un nuovo inizio nella poetica di uno dei più grandi registi contemporanei.
A City of Sadness
Il 28 febbraio del 1947, dopo due anni di pessimo governo da parte del Kuomintang, la popolazione taiwanese insorge, ma la rivolta viene violentemente repressa nel sangue [3].
È da quest'incidente, passato alla storia come 2/28 Incident, che parte il periodo del c.d. "Terrore bianco" che costringerà Taiwan alla dittatura fino agli anni '90 del secolo scorso. Ed è questa la cornice che fa da sfondo al film di Hou, Bēiqíng chéngshì (Città dolente).
A City of Sadness narra la storia della famiglia Lin. Wen-sun, il secondo figlio, è disperso in guerra, un'altro, Wen-heung, il maggiore, gestisce piccole attività commerciali, mentre il terzo Wen-leung è appena tornato dal fronte non certo indenne, almeno psicologicamente. Il più piccolo, interpretato da Tony Leung, Wen-ching, è sordomuto da quando era solo un bambino. Insieme cercheranno di adattarsi e sopravvivere in maniera diversa al passaggio di consegne dai giapponesi ai cinesi, mentre sullo sfondo si avvicina la tragedia del 28 febbraio. Ma se Wen-heung, padre di famiglia, cercherà in tutti i modi di restare in disparte e mantenere un basso profilo, pur non riuscendoci, Wen-leung cercherà al contrario di arricchirsi col contrabbando, mettendo in pericolo la sua stessa famiglia, fino a restare gravemente menomato a causa delle violenze della polizia. Nel mezzo Wen-ching cercherà di reagire, supportando come può i ribelli, ed allo stesso tempo portando avanti una vita normale, sposando Hinomi, diventando padre, e continuando la sua professione di fotografo, fin quando qualsiasi speranza per il futuro non verrà definitivamente cancellata.
Si apre con una fotografia A City of Sadness, e se ne chiude con un'altra, quasi a voler fermare il tempo, sia all'inizio che alla fine del film. Non dev'essere stato facile per Hou e i suoi collaboratori ricostruire quei giorni. Il Kuomintang aveva iniziato un lento processo verso la democrazia intorno agli anni '80. Per la prima volta si parlava dell'Incidente del 2/28, gli archivi segreti venivano parzialmente resi pubblici e la gente ricominciava a parlare del passato, anche chi lo aveva vissuto, cessato il timore di essere messi a tacere poi per sempre. In realtà, e volontariamente a sentire lo stesso regista [4], non vi era una reale intenzione di mostrare i fatti così come accaduti, ma solo di darne una mera rappresentazione, anche per evitare di mostrare eccessiva crudeltà e/o violenza sullo schermo. Eppure gli eventi non sono edulcorati: il terrore che serpeggiava in quei giorni è evidente, seppur velato. Allo stesso tempo Hou non risparmia critiche alla società taiwanese del tempo, colpevole di non esser stata capace di mantener vivi i propri ideali, la propria cultura, di essersi lasciata eccessivamente ammaliare dal fascino degli occupanti nipponici, dalla loro estetica, struggente e decadente allo stesso tempo.
La critica asiatica si è interrogata a lungo su quali fossero le reali intenzioni di Hou nel complesso. A City of Sadness è da considerarsi un film storico, ovvero meramente storiografico? La narrazione degli eventi accorsi nel periodo del terrore bianco ci vengono mostrati da un lato tramite gli occhi del sordomuto Wen-ching, dall'altro tramite le lettere di Hinomi, quasi a voler creare una sorta di distacco da essi. È pur vero che il disvelamento degli archivi segreti su quegli anni era solo parziale, e che i dati conosciuti provenivano sempre dal Koumintang, cioè da chi in quegli anni aveva rivestito il ruolo di oppressore e carnefice. In realtà ciò che Hou vuole realmente fare è creare una sorta di parallelismo tra la situazione in cui verteva l'isola dopo la fine del dominio giapponese e quella in cui Taiwan è venuta a ritrovarsi negli anni '80, con il cambio di rotta del Kuomintang, e l'avvio di quel lento processo che tra alti e bassi l'avrebbe portata verso la democrazia.
Attraverso un'estetica carica di simbolismo, uno stile misurato, telecamera ferma su un treppiede e long takes, Hou sintetizza nella saga della famiglia Lin l'intera storia di Taiwan, ed in particolar modo nella figura di Wen-ching, il cui sordomutismo è una metafora stessa della condizione del cittadino di fronte agli eventi della storia [5]. Come Wen-ching non può ribellarsi ed esprimere il proprio punto di vista a causa della propria disabilità, così agli abitanti dell'isola non era e non è concessa alcuna forma di libertà di pensiero. Wen-ching non può far altro che continuare la propria vita, continuando a scattare fotografie, apparentemente ignaro di ciò che accadrà in futuro, ma consapevole nel proprio universo di solitudine di quel che sta accadendo intorno a lui.
In una delle scene più strazianti ed emblematiche del film, Wen-ching attende in carcere di essere convocato dal magistrato per conoscere quale sarà il prorpio destino, e nel frattempo, altre persone con lui in cella, si alzano per scoprire il proprio... Wen-ching osserva malinconico, sguado fisso nel vuoto, da una finestra, e in sottofondo si odono gli spari di un'esecuzione. Wen-ching non può sentire nulla, ma il suo volto, il suo sguardo, sembrano sapere...
Saga familiare o racconto storico, lo struggente capolavoro del Maestro Hou Hsiao-hsien è soprattutto uno spaccato simbolico di un'era che per l'isola di Taiwan ha avuto un significato particolare, è il ritratto parziale e incompleto di una tragedia di cui in Patria ancor oggi si fatica a parlare, ma è inequivocabilmente anche una delle punte più alte raggiunte non solo dalla poetica di Hou, ma nell'intera storia del cinema taiwanese. Sorretto da un cast eccellente di attori, e da una solida sceneggiatura, A City of Sadness resta indelebile nella nostra memoria.
Un film assolutamente da vedere e di cui si consiglia assolutamente la visione.
See ya' soon!
Note
[1] La dinastia Qing cedette Taiwan al Giappone nel 1895, e l'isola tornò alla Repubblica Cinese solo nel 1945. Allora il Kuomintang di Chiang Kai-shek governava nella Cina continentale, ma già si trovava a dover affrontare l'opposizione del Partito Comunista Cinese di Mao Zedong. La guerra civile cinese tra le due fazioni, che iniziò nel 1927, si concluse formalmente nel 1950, con la nascita della Repubblica Popolare Cinese di Mao, ma già nel 1949 Chiang Kai-shek era scappato con i suoi fedelissimi a Taiwan, dove nacque l'attuale Repubblica di Cina. Il Kuomintang restò al potere, senza che a Taiwan si affacciasse una vera democrazia, fino alla fine degli anni Ottanta, poi venne avviato un lento processo di democratizzazione che ha potato nel 1996 alle prime elezioni libere nel Paese.
[2] La Repubblica di Cina perde il suo seggio alle Nazioni Unite nel 1971, e viene disconosciuto anche dagli Stati Uniti come stato indipendente nel 1979. Attualmente Taiwan è in un limbo, perché pur non essendo riconosciuto come Stato indipendente, se non da sole 23 nazioni, mantiene rapporti commerciali con tutto il mondo, ed è altresì tutelata dalle frequenti minacce che provengono dalla R.P.C. da una legge del Congresso americano che impone l'intervento armato in favore dell'Isola, in caso di qualsiasi attacco militare contro di essa.
[3] Con il ritorno alla Cina Taiwan venne affidata al governatore Chen Yi, che iniziò a dividere le alte cariche tra i propri familiari e i propri fedelissimi. Vennero ripristinati alcuni monopoli statali, come quelli sulle sigarette. E saranno proprio le sigarette a far scoccare la scintilla. Il 27 febbraio del 1947, i militari sequestrano un'ingente qiuantità di sigarette ad una giovane vedova, nel distretto di Taiheicho a Taipei. La donna insiste perché le vengano restituite, ma un militare le punta la pistola alla testa, e la colpisce. La folla presente non osserva la scena inerme e reagisce, ma dai militari parte un colpo, che uccide un passante. Il giorno seguente, il 28 febbraio, la rivolta fomenta, i civili chiedono democrazia ed elezioni libere. L'ordine del Kuomintang è tassativo: ripristinare la legge marziale per spegnere la rivolta. I militari al soldo di Chen Yi hanno l'ordine di sparare sulla folla, ma all'inizio le cose non vanno come credevano. Le milizie constano di pochi uomini, e la rivolta che sembrava limitata alla sola Taipei ora si allarga a tutta l'isola. Poi dalla Cina continentale arrivano i rinforzi e da lì seguono rastrellamenti a tappeto, arresti ingiustificati, processi ed esecuzioni sommarie; fonti americane parlano di torture, mutilazioni, stupri di massa... Il Terrore bianco portò alla conclusione della rivolta intorno alla fine di marzo. Le stime dei morti sono incerte, perché il Kuomintang ha secretato i fatti fino agli anni '90, ma si calcola che le esecuzioni possano andare tranquillamente dalle 2000 alle 4000.
[4] REYNAUD B., A City of Sadness, London: British Film Institute, 2002.
[5] In realtà il sordomutismo di Lin Wen-ching nasceva dal desiderio di Hou nell'avere Tony Leung in questo film. Il film è infatti parlato in ben 4 lingue di origine cinese (mandarino, cantonese, shanghainese e taiwanese) e in giapponese, laddove la popolazione locale parlava comunque solo l'hakka taiwainese e il giapponese. Leung invece non parlava né il dialetto hakka, né il giapponese, pertanto Hou decise di modificare il personaggio, facendolo diventare sordomuto, ed accentuandone così la presenza drammatica e simbolica.
Messaggio modificato da fabiojappo il 15 November 2015 - 12:25 PM