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[RECE][SUB] Double Suicide


14 risposte a questa discussione

#1 Shimamura

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Inviato 21 March 2017 - 02:57 PM

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Titolo originale: Shinju ten no Amijima

Regia: Shinoda Masahiro

Anno: 1969

Paese: Giappone

Durata: 104'

Recensione: Shimamura

Traduzione: JulesWU




Shinoda Masahiro (篠田 正浩)

Shinoda Masahiro nasce il 9 marzo del 1931, nella Prefettura di Gifu.
Studia teatro alla prestigiosa Università Waseda (早稲田大学, Waseda Daigaku), ma preferisce poi virare sul cinema, ed entra alla Shochiku, dove ha la fortuna di essere nominato assistente alle regia niente poco di meno che di Ozu Yasujiro (小津 安二郎). Il rapporto tra il maestro e l'allievo è curioso, perché la distanza tra il cinema dei due autori appare a tratti incolmabile, ma in realtà la tecnica di regia di Ozu influenzerà moltissimo il giovane Shinoda, che resterà con il Maestro fino al 1960, quando la Shochiku, così come aveva già fatto per Oshima Nagisa (大島 渚) e Yoshida Yoshishige (吉田喜重), virando verso un cinema più innovativo e sperimentale, lo autorizza a girare il suo primo lungometraggio.
Koi no katamichi kippu (恋の片道切符), come il seguente lavoro, Kawaita mizuumi (乾いた湖), sempre del 1960, si concentra in particolar modo sulla gioventù nipponica, e sui tumulti culturali e politici che hanno caratterizzato il Giappone degli anni '60 e '70, e tuttavia, pur ascrivendo di diritto Shinoda al filone della c.d. Shochiku New Wave, il suo cinema fin da subito si distingue da quello dei suoi summenzionati colleghi, in quanto più distaccato dalla politica, e piuttosto teso ad una certa sensualità, molto contemporanea, diversa da quella dei maestri nipponici che lo hanno preceduto, in parte debitrice anche dalla poetica di Terayama Shuji (寺山 修司), sceneggiatore di Kawaita mizuumi, e poi anche di molti dei film seguenti di Shinoda, quali Yūhi ni akai ore no kao (夕陽に赤い俺の顔) e Waga koi no tabiji (わが恋の旅路), entrambi del 1961, o Namida wo, shishi no tategami ni (涙を、獅子のたて髪に), del 1962. Giovani studenti rivoluzionari, la frivolezza dei quartieri del gioco e dei piaceri, il mondo della malavita, sono solo alcuni dei protagonisti del cinema del regista nei primi anni Sessanta, che da intellettuale e uomo di vasta cultura, indaga i suoi personaggi con occhio critico, ma senza indulgere in severi giudizi.


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La poetica di Shinoda giunge però ad una vera e propria maturità solo quando l'autore si affranca dall'universo di Terayama, con il bellissimo Kawaita hana (乾いた花, Pale Flower), del 1964, e sempre nello stesso anno con Ansatsu (暗殺, Assassination). Qui l'estetica di Shinoda, chiaramente mutuata dal teatro kabuki (歌舞伎), giunge al suo vertice: sensualità, distruzione, corruzione e morte si frammentano in un estetismo di incomparabile bellezza. Protagonista femminile di Ansatsu è Iwashita Shima (岩下 志麻) attrice che aveva già lavorato con Ozu, anche nell'ultimo stupendo film del Maestro, Sanma no aji (秋刀魚の味, 1963) e nell'epocale Seppuku (切腹, 1962), di Kobayashi Masaki (小林 正樹). Iwashita diverrà poi una presenza costante nel cinema di Shinoda, e dal 1967 anche sua moglie.
In seguito Shinoda lascia la Shochiku, che non è più disposta ad investire sul cinema di avanguardia, e nel 1965 fonda la sua compagnia di produzione, la Hyogen-sha (表現社).
Nel 1969 Shinoda, grazie anche ai finanziamenti dell'ATG, gira il suo capolavoro, Shinju: ten no Amijima (Double Suicide), la sua opera più sperimentale e perfetta, dove la mise-en-scène è chiaramente ispirata di nuovo al teatro giapponese, questa volta al bunraku, il teatro dei burattini.


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Seguirà nel 1970 Buraikan (無頼漢), una complessa rielaborazione di un dramma kabuki, che segna il ritorno alla collaborazione con Terayama, e nel 1971 il bellissimo Chinmoku (沈黙, Silence), dal romanzo capolavoro del 1966 [1] di Endo Shusaku (遠藤 周作). Endo era di religione cattolica e molta della sua opera è incentrata sul controverso rapporto che un giapponese può avere con la fede, in un Paese dove i cristiani non rappresentano nemmeno l'1%. Ispirandosi alla disavventura del missionario palermitano Giuseppe Chiara, costretto all'abiura e poi alla prigione a vita dalle autorità giapponesi del XVII secolo, Endo traccia una discendente e struggente parabola di umanità e fede. Shinoda restò profondamente impressionato dal lavoro del grande scrittore e ne trae un film che si avvale anche di attori occidentali, dove mette da parte tutto lo sperimentalismo degli anni precedenti, per concentrarsi su una straordinaria ricostruzione storica dei tempi e su una profonda quanto sofferta analisi interiore ed umana dei personaggi.
Gli anni seguenti confermano il momento di grazia del regista, ma senza tuttavia raggiungere le vette del passato, prima con Himiko (卑弥呼), del 1974, che segna il suo ritorno all'estetica dell'avant-garde, e poi con Hanare goze Orin (はなれ瞽女おりん, The Ballad of Orin), che frutta il premio come miglior attrice alla Iwashita all'Hochi film Award (報知映画賞, Hōchi Eiga Shō).
E tuttavia il cinema di Shinoda oramai ha perduto molto del suo fascino. Tutta la ricerca estetica che connotava il suo stile sembra rilegata al passato, e pur non mancando prove brillanti, come Chikamatsu Monzaemon Yari no gonza (近松門左衛門 鑓の権三, Gonza the Spearman), che nel 1984 viene premiato anche alla berlinale, e Shonen jidai (少年時代, Childhood Days), del 1990, Shinoda, pur marcando anche in tempi recenti qualche discreto successo al botteghino in Patria, sembra non aver più molto da dire.


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Shinju: ten no Amijima (心中天網島)




"To the ears of one possessed by the God of Death, reason and objections seem like so many idle complaints."

Chikamatsu Monzaemon [2]


"They all crossed into forbidden territory. They all tampered with the laws that lay down

who should be loved, and how. And how much."

Arundhaty Roy [3]


Shinju: ten no Amijima, lett. Doppio suicidio: il cielo di Amijima [4], più noto con il titolo internazionale di Double Suicide, è senza dubbio l'opera più estrema e conosciuta di Shinoda. È anche il film che più di tutti risente delle influenze che il teatro classico giapponese ha avuto sul regista.
Shinju: ten no Amijima è infatti il titolo di un sewamono (世話物), un dramma di ambientazione contemporanea, sociale, scritto per il ningyo joruri (人形浄瑠璃), il teatro dei burattini, chiamato anche bunraku (文楽), da quello che è considerato il suo massimo esponente, Chikamatsu Monzaemon (近松 門左衛門) [5]. Chikamatsu aveva raggiunto la gloria grazie ad un'altra pièce dal tema simile, il Sonezaki shinjū (曾根崎心中), Doppio suicidio d'amore a Sonezaki, del 1703, ispirato ad un allora recente fatto di cronaca, che aveva a sua volta ispirato Ihara Saikaku (井原 西鶴), che vi aveva dedicato uno dei racconti del suo Koshoku gonin onna (好色五人女) [6]. È il 1720 invece quando scrive Shinju: ten no Amijima. Anche qui l'ispirazione sembrerebbe tratta da un fatto di cronaca, ma in realtà non esistono, al contrario dei fatti di Sonezaki, fonti storiche in merito [7]. Rispetto però all'opera precedente qui il tema è più cupo. Fin dall'inizio i due protagonisti appaiono in una posizione disperata, senza alcuna via di uscita, e ciò indubbiamente fu una delle ragioni all'epoca del successo dell'opera, in quanto il protagonista, Jihei, con tutti i suoi problemi e debiti, era senza dubbio un personaggio in cui riuscivano a riconoscersi molti degli spettatori dell'epoca.


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Shinoda si mostra molto fedele al testo di Chikamatsu, stravolgendone piuttosto che la trama, la messa in scena. Il film si apre con il regista che discute al telefono con Tomioka Taeko (富岡 多恵子), co-autrice della sceneggiatura, del film, circondato da burattini in mezzo ad una classica scenografia da teatro. Ben presto l'opera comincia, e a muoversi in questo straordinaria palco che rappresenta un quartiere di piacere, proprio Sonezaki, ad Osaka [8], è Jihei, un commerciante di poca fortuna, che va ad incontrare in una delle case di piacere del posto la giovane Koharu, con cui ha una relazione. Jihei vorrebbe riscattare Koharu, ma non può, perché le sue finanze non glielo consentono. È così costretto a sopportare insieme a lei questa condizione che non permette altro che incontri furtivi, oltre al dileggio di altri clienti della donna, come il ricco Tahei. Jihei tuttavia ha anche altro a cui pensare, perché è sposato con Osan, sua cugina, con cui ha due figli. L'intromissione del di lui fratello, Magoemon, sembrerà riportare Jihei sulla retta via, convincendolo della malafede di Koharu, ma gli basterà poco per sentire la mancanza dell'amata. Quando scoprirà che Koharu aveva agito in quel modo solo perché non voleva che commettesse suicidio, e dietro pressioni di Osan, che non voleva che il marito morisse, Jihei è l'amata si ricongiungeranno. Oramai privati di tutto, e senza alcuna speranza di una vita insieme, non resterà loro altro che la morte.


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Rispetto al Daikyoji Mukashi-Goyomi (大経師昔暦), altro lavoro di Chikamatsu noto grazie ad una famossissima trasposizione cinematografica, in Chikamatsu monogatari (近松物語) ad opera di Mizoguchi Kenji (溝口 健二), qui la morte ha una valenza diversa. Nell'opera di Mizoguchi i due amanti non trovano la morte di propria volontà, bensì per mano di legge, è vero, ma il tema è simile in quanto protagonisti sono due amanti la cui posizione sociale rende impossibile il coronamento del proprio sogno d'amore. In entrambe le opere i protagonisti sono consapevoli che la morte è l'unica via di uscita alle proprie sofferenze, ma mentre Mizoguchi sembra interpretarla strictu sensu in tale maniera, quasi la morte fosse una reale liberazione, Shinoda vede la morte (volontaria) di Jihei e Koharu quale atto di ribellione contro le leggi cui la società li ha imbrigliati.
Quasi come marionette i cui fili sono tenuti da un destino ineluttabile, Jihei e Koharu non hanno infatti altro metodo di lotta che la morte, sfidando così le convenzioni sociali dell'epoca. E che i due amanti siano burattini è evidente non soltanto dalla natura dell'opera stessa, quanto dalla mise-en-scène del film, spiazzante sotto molti punti di vista. Tutta la scena si svolge su di un palco unico, dove scenografie girevoli possono spostarci da una casa di piacere ad un negozio di carta. La presenza dei kuroko (黒子) [9] in scena accentua la sensazione di trovarsi seduti in platea, ad assistere ad una pièce teatrale. Ma i kuroko per Shinoda non sono soltanto meri aiutanti di scena. Certo, essi si occupano del cambio di scenografia, delle parti declamatorie, aiutano Osan a disfare il suo guardaroba, ed armano la mano incerta di Jihei, ma soprattutto essi sono spettatori di una trama a cui partecipano, impossibilitati a svolgere qualsiasi ruolo diverso da quello che gli è proprio. I continui primi piani che la regia gli dedica mostrano volti tristi, addolorati, consapevoli della tragedia che si sta consumando davanti ai propri occhi, e consapevoli di non poter far nulla per evitarla.

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Il perpetuo conflitto tra giri (義理, dovere) e ninjo (人情, emozioni umane, sentimento) si rinnova nella storia raccontata da Chikamatsu. Jihei ha una famiglia, una moglie e due figli, e le convenzioni sociali lo legano ad essa (giri), eppure ama, riamato, Koharu (ninjo). Come superare questo conflitto, se non con la morte? Il conflitto tra giri e ninjo è altresì evidente nella contrapposizione tra le due protagoniste femminili: Koharu e Osan, entrambe interpretate dalla brava Iwashita. Laddove infatti Osan rappresenta nel suo legame coniugale e nei suoi sensi di colpa il giri, Koharu, anch'essa devastata dal senso di colpa, è invece mossa dal desiderio di amore che la lega al marito dell'altra, incarnando cosi il ninjo. La dicotomia tra le due è espressa anche dalla diversa presenza che esse hanno sulla scena. Laddove Osan è una figura totalmente de-eroticizzata, Koharu impersonifica l'erotismo, la sessualità.
La splendida e minimale scenografia è invece merito del grande Awazu Kyoshi (粟津潔). Awazu aveva già lavorato con Terayama, sia per le illustrazioni dei suoi libri che per le locandine di alcuni dei suoi film, e tramite quest'ultimo era entrato in contatto con Shinoda. Fu proprio Awazu a suggerire che le scenografie non venissero dipinte, ma ricoperte semplicemente di pennellate di inchiostro e di scritte, con brani presi da famosi testi del joruri.
Il film fu un enorme successo, cosa rara per l'avant-garde nipponica, e venne addirittura votato come Miglior film dell'anno dai critici dell'autorevole rivista Kinema Jumpo (キネマ旬報).
Universalmente ritenuto tra i maggiori capolavori del cinema giapponese è tra le punte della nuberu bagu, Shinju: ten no Amijima è un film bellissimo, diverso da qualsiasi altro abbiate visto finora. Un'esperienza imperdibile.

See ya' soon!


Note

[1] ENDO S., Silenzio, Corbaccio, Milano, 2016. Il romanzo ha avuto di recente un'altra e probabilmente più nota riduzione cinematografica ad opera di Martin Scorsese.
[2] CHIKAMATSU M., The Love Suicides at Amijima, in Haruo Shirane, ed., Early Modern Japanese Literature: An Anthology, 1600–1900, Columbia University Press, 2002, 313 ss.
[3] ROY A., Il dio delle piccole cose, ed. it., Guanda, Parma, 2000.
[4] La traduzione del titolo, come mi è stato fatto notare dal mio buon amico Daniele, è oltremodo complessa, perché in teoria dovrebbe derivare da un proverbio giapponese: Tenmōkaikai sonishite morasazu(天網恢恢疎にして漏らさず), che più o meno significa: La rete del cielo ha maglie larghe, ma nulla può sfuggirle, che, sempre in teoria, varrebbe a dire che nonostante le infinite possibilità che sembrano essere poste innanzi a noi, alla fine è impossibile sfuggire al proprio destino, ovvero alla volontà divina.
[5] Nato Sugimori Nobumori (杉森 信盛), probabilmente nel 1653, Chikamatsu divenne ben presto uno dei maggiori autori del teatro kabuki (歌舞伎), ma già a partire dal 1686, quando si trasferì da Kyoto ad Osaka, iniziò la sua opera di rivoluzione del joruri. I suoi dramma, principalmente sewamono, pongono per la prima volta musica e declamazione al ruolo di accompagnamento della narrazione, che privilegia invece il dialogo e l'azione. Sorprendente inoltre la cura nella costruzione psicologica dei personaggi, insolita a quel tempo. Muore nel 1725.
[6] IHARA S., Cinque donne amorose, Adelphi, Milano, 1980.
[7] Grazie al lavoro del Maestro, tuttavia, la vicenda divenne talmente famosa che iniziarono a sorgere numerose celebrazioni dei fatti, al punto che presso il Daichoji, il tempio situato nei pressi di Amijima, Osaka, dove la vicenda dei due amanti si conclude, è stata posta una stele funeraria commemorativa.
[8] È curioso notare come sia peraltro molto forte nella parlata di alcuni personaggi, Koharu in primis, il dialetto locale.
[9] I kuroko sono degli assistenti di scena, presenti sia nel teatro kabuki, dove si occupano dei cambi di scenografia, o di coadiuvare l'attore, che nel joruri, dove spesso svolgono anche il ruolo di ningyōtsukai (人形遣い), cioè di burattinaio, sebbene le due figure non vadano confuse. Non sempre infatti il burattinaio veste come i kuroko, che devono il loro nome proprio al particolare abito indossato, interamente nero, a volto coperto. Tale abbigliamento naturalmente è finalizzato a cercare il maggior mimetismo possibile con la scenografia, spesso essenziale e buia.


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Rappresentazione di joruri, dove in scena si evidenzia sia la presenza di un ningyotsukai, a volto scoperto, che dei kuroko.



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Messaggio modificato da fabiojappo il 21 March 2017 - 03:28 PM

Hear Me Talkin' to Ya




Subtitles for AsianWorld:
AsianCinema: Laura (Rolla, 1974), di Terayama Shuji; Day Dream (Hakujitsumu, 1964), di Takechi Tetsuji; Crossways (Jujiro, 1928), di Kinugasa Teinosuke; The Rebirth (Ai no yokan, 2007), di Kobayashi Masahiro; (/w trashit) Air Doll (Kuki ningyo, 2009), di Koreeda Hirokazu; Farewell to the Ark (Saraba hakobune, 1984), di Terayama Shuji; Violent Virgin (Shojo geba-geba, 1969), di Wakamatsu Koji; OneDay (You yii tian, 2010), di Hou Chi-Jan; Rain Dogs (Tay yang yue, 2006), di Ho Yuhang; Tokyo Olympiad (Tokyo Orimpikku, 1965), di Ichikawa Kon; Secrets Behind the Wall (Kabe no naka no himegoto, 1965) di Wakamatsu Koji; Black Snow (Kuroi yuki, 1965), di Takechi Tetsuji; A City of Sadness (Bēiqíng chéngshì, 1989), di Hou Hsiao-hsien; Silence Has no Wings (Tobenai chinmoku, 1966), di Kuroki Kazuo; Nanami: Inferno of First Love (Hatsukoi: Jigoku-hen, 1968) di Hani Susumu; The Man Who Left His Will on Film (Tokyo senso sengo hiwa, 1970), di Oshima Nagisa.
AltroCinema: Polytechnique (2009), di Denis Villeneuve ; Mishima, a Life in Four Chapters (1985), di Paul Schrader; Silent Souls (Ovsyanky, 2010), di Aleksei Fedorchenko; La petite vendeuse de soleil (1999), di Djibril Diop Mambéty; Touki Bouki (1973), di Djibril Diop Mambéty.
Focus: Art Theatre Guild of Japan
Recensioni per AsianWorld: Bakushu di Ozu Yasujiro (1951); Bashun di Ozu Yasujiro (1949); Narayama bushiko di Imamura Shohei (1983).

#2 Iloveasia

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Inviato 21 March 2017 - 10:38 PM

Non so da quanto tempo non davo come voto un 10. Se non fosse che questo film già lo conoscevo bene ed è fra i miei preferiti giapponesi, Shimamura, c'è da farti un monumento: non solo per le scelte a anche per l'accuratezza e la ricchezza di notizie, sia sul regista, sia sul film. Confesso che negli altri (pochi) film che ho visto di Shinoda, non ho amato l'estremo controllo formale e una certa freddezza. Ma qui il regista incrocia la tragedia e mirabilmente la sublima attraverso il teatro. Questa commistione di cinema e teatro Bunraku è unica, magica e incantevole. Sarà che amo molto anche il teatro, ma mi ha letteralmente ammaliato.
L'unica cosa che non trovo nella tua recensione è che questo film mi ha fatto venire in mente immediatamente un altro capolavoro più recente, "Dolls" di Kitano, altro film che mi ha conquistato incondizionatamente. Mi sembra evidente che, nel girarlo, Kitano non potesse averlo come punto di riferimento e fonte d'ispirazione. Sei d'accordo?

#3 Shimamura

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Inviato 22 March 2017 - 12:16 AM

Le affinità sono presenti senza dubbio, iloveasia, ma non tanto tra Shinoda e Kitano, quanto tra Chikamatsu, Shinoda e Kitano. È un'altra opera del maestro infatti ad ispirare una delle tre storie di Doll, meido no hikiyaku. Un'altra opera, che manco a dirlo, ha come protagonisti due amanti, lui il figlio di uno spedizioniere, lei una prostituta. Dopo una serie di vicissitudini scapperanno insieme, e moriranno, certo, ma non di loro volontà. Come appunto per gli amanti di Kitano, sarà il freddo delle montagne su cui hanno trovato rifugio a dar loro la pace eterna. Lo stile di Chikamatsu quindi è il trait d'union tra i due lavori, ma non vi vedo altro.

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AltroCinema: Polytechnique (2009), di Denis Villeneuve ; Mishima, a Life in Four Chapters (1985), di Paul Schrader; Silent Souls (Ovsyanky, 2010), di Aleksei Fedorchenko; La petite vendeuse de soleil (1999), di Djibril Diop Mambéty; Touki Bouki (1973), di Djibril Diop Mambéty.
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#4 JulesJT

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Inviato 22 March 2017 - 09:55 AM

Film stupendo. L'ho adorato come pochi. :em41:

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#5 Iloveasia

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Inviato 22 March 2017 - 10:36 AM

Grazie Shimamura, fra "Double suicide" e "Dolls", Chikamatsu era l'anello che mi mancava.... Sono d'accordo, la distanza fra Shinoda e Kitano è siderale, anche se Dolls è il suo film più rarefatto e stilisticamente raffreddato e composto. Confesso però che la morte finale degli amanti di Dolls, appesi a un albero, io l'avevo interpretata come un suicidio.

#6 fabiojappo

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Inviato 22 March 2017 - 02:21 PM

Visualizza MessaggioIloveasia, il 21 March 2017 - 10:38 PM, ha scritto:

Mi sembra evidente che, nel girarlo, Kitano non potesse averlo come punto di riferimento e fonte d'ispirazione.

Non voglio uscire troppo fuori tema, ma il riferimento a "Dolls" di Kitano mi ha fatto venire in mente un altro film con marchio ATG proposto l'anno scorso: "Hymn" di Shindo, tratto da un racconto di Tanizaki (in una delle tre storie raccontate, quella della idol Haruna e del suo fan, Kitano fa chiaramente riferimento allo stessa opera).


Per quanto riguarda l'opera di Chikamatsu in questione, segnalo anche il film di Yasuzo Masumura "Double Suicide of Sonezaki" del 1978. Non regge il confronfo con quello di Shinoda, ma speriamo di proporlo su AW prossimamente

Messaggio modificato da fabiojappo il 22 March 2017 - 02:24 PM


#7 ggrfortitudo

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Inviato 26 March 2017 - 05:20 PM

Da poco stavo rileggendo il verismo di Verga, e questo film me lo ha rammentato tutto.

La freddezza dei burattini, dei teatranti, di molti protagonisti, la storia narrata con distacco, apre e chiude una vicenda di "vinti", patetica come poche. Non vi può essere riscatto per i reietti, schiavi della loro stessa vita e della crudeltà del mondo.

:em37: :em37:

#8 andreapulp

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Inviato 05 April 2017 - 12:13 AM

Non ho mai visto in un film una tale coerenza e perfezione stilistica, sublimato da inquadrature di rara bellezza e perfezione geometrica. La messa in scena di Shinoda in questo film è unica. Mi ha sconvolto!

#9 psheep

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Inviato 07 April 2017 - 05:50 PM

che dire, grazie dei sub e della meravigliosa recensione.
la cosa che piu' mi ha impressionato è senza dubbio la profondità di alcune inquadrature.
c'è una sequenza verso i 15 minuti dove la padrona di koharu si alza e passa da un secondo piano al primo piano intrecciandosi con koharu, tahei, i suoi scagnozzi e i passanti che scorrono dietro la parete, beh quei 10 secondi sono IL cinema per quanto mi riguarda.





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