Narayama bushiko
di Imamura Shohei
Sinossi.
Siamo nel 1860. Gli anziani del villaggio montano Shinshu, un miserabile agglomerato di capanne, raggiunti i 70 anni, vengono portati dai figli, per consuetudine "naturale" a morire sulla cima del Narayama, per consentire ad uno più giovane di sfamarsi. La vecchia Orin, al fine di far posto a una moglie per il primogenito Tatsuhei, si spezza i denti contro l'orlo di un pozzo per apparire più vecchia e così accelerare il proprio viaggio verso Narayama. Intorno a Orin si svolgono le vicende del secondogenito Risuke, semiidiota allo stato quasi sub umano e dell'intero villaggio, che, fra l'avvicendarsi delle stagioni, i cicli di riproduzione della natura e gli accoppiamenti umani primitivi e furiosi, tenta di sopravvivere vendendo le bambine ai mercanti di sale, trucidando in massa i ladri di viveri in maniera raccapricciante, eliminando i neonati in sovrappiù e portando i vecchi a morire sulla montagna.
Recensione.
Presentato al festival di Cannes del 1983, dove vinse la Palma d'oro, Narayama bushiko (楢山節考, La ballata di Narayama) è uno dei vertici della poetica del grande Imamura Shohei (今村 昌平), nonché del cinema nipponico degli ultimi anni.
Si parte con una ripresa dall'alto, che mostra i monti innevati. In realtà è stata l'ultima girata da Imamura, a causa di un inverno meno rigido del previsto. Poi comincia la storia.
Imamura ci porta in un mondo a noi estraneo, a conoscere una cultura che si fonda su leggende e tradizioni talmente radicate che ad esse è impossibile ribellarsi. È il mondo narrato da Fukuzawa Shichiro (深沢七郎) nel suo omonimo romanzo e nel racconto Gli Zummu del Tohoku1. Ho avuto la fortuna di leggere entrambi i lavori di Fukuzawa, e non posso fare a meno di notare come Imamura, pur restando legato al'impianto narrativo centrale delle due opere se ne distacchi comunque, in maniera repentina, al contrario di quanto ha fatto Kinoshita Keisuke (木下 恵介) nella sua versione del film, nel 1958. Kinoshita peraltro, non solo resta fedele al libro Narayama bushiko, tralasciando del tutto il racconto Gli Zummu del Tohoku, ma imposta tutto il lavoro secondo schemi tipici del teatro giapponese, usando come scenografia un palco del teatro Noh, differenziando così nettamente il proprio lavoro da quello di Imamura. Laddove Kinoshita lascia trasparire poesia Imamura ci pone di fronte ad uno spietato realismo, quello di un paese arido, dove l'inverno rigido mette a dura prova la sopravvivenza di tutti e dove sfamare anche una bocca in più può voler dire morire di fame, ecco perché al sopraggiungere del settantesimo anno di età gli anziani vengono abbandonati sul monte Narayama a morire. È una regola crudele, ma necessaria per andare avanti.
Assistiamo allora a punizioni feroci nei confronti dei trasgressori, a scene drammatiche, come il commercio di bambine, o ancora al destino dei neonati di troppo, lasciati a morire di fame e gettati nelle risaie come concime.
Eppure è un villaggio come un altro. Ci sono canti, balli, feste religiose. Gli uomini si radunano per raccontarsi barzellette volgari, i bambini disobbediscono e sbeffeggiano le nonne, e nel mentre succede quello che succede dovunque, si corteggia, si litiga, si prende moglie, si stuprano donne e ci si uccide...
Imamura riempie il suo film con passaggi lirici che grazie ad una splendida fotografia ci mostrano paesaggi naturali sublimi. Attraverso il montaggio collega le azioni degli esseri umani con quelle delle creature che vivono intorno a loro. Ratti che si cibano di una serpe morta, insetti che copulano tra di loro, animali che si cibano di altri animali, che poi a loro volta verranno uccisi dall'uomo alla ricerca di cibo. Anche all'interno di un ramo secco c'è la vita e di sicuro il mondo che Imamura ci racconda è un mondo vivo, anzi, vitale. È un mondo dove dominano gli istinti, quelli primordiali, quello della sopravvivenza, ma anche quello della sessualità. Non sono certo solo gli animali a copulare nel film, uomini e donne non sono da meno, fanno di tutto per acquietare i propri bisogni, accontentandosi anche di una cagna, se non trovano un proprio simile!
Ma soprattutto è un universo, quello di Imamura, dove la morte viene accettata con solennità, come fa la vecchia Orin, che passa i suoi ultimi giorni a preparare la nuova moglie di Tatsuhei a prendere il suo posto e che pur di non sfuggire al proprio destino non esita a rompersi su di una pietra i due incisivi frontali, al fine di sembrare più vecchia e decrepita. In fondo si ritiene fortunata rispetto a chi alla sua età non è arrivato, morendo prima, perché lei, al contrario di questi, sapeva già quando e come morire.
Alla fine salirà sulle spalle del figlio e si lascerà trasportare sulla cima della montagne, in una sequenza tra le più alte del cinema di Imamura, dove Tatsuhei riscopre il senso del rapporto tra uomo e natura e di un figlio con la propria madre, che dovrà forzarlo ad abbandonarla. Struggente la scena in cui il primogenito si reca in avanscoperta sula montagna ed al ritorno non trova più la madre, e la chiama disperato e poi la ritrova, perché non è ancora giunto il momento dell'addio.
Narayama bushiko è un film sul rapporto dell'uomo con sé stesso, con i propri istinti e la propria animalità, con le proprie tradizioni e con i propri obblighi.
È un film bellissimo, degno di essere visto. È un film che ha lasciato il segno nella storia del cinema giapponese e che ha portato alla luce la grandezza di uno dei più grandi cineasti contemporanei.
Pochi giorni fa la Raro Video ha pubblicato una bella edizione in DVD dell'opera, in versione integrale, per la prima volta in Italia.
Un'occasione imperdibile per chi ama il grande cinema.
See ya' soon!
1 Entrambi editi in Italia, il primo da Einaudi col titola Le canzoni di Narayama, il secondo raccolto da Bompiani nel volume Narratori giapponesi moderni, a cura di Atsuko Ricca Suga.
Messaggio modificato da Shimamura81 il 06 May 2011 - 08:46 AM