Inviato 19 September 2010 - 06:51 PM
vabbè, ve la regalo, dai:
Parlare di Peking Opera Blues senza esagerare con l’entusiasmo e gli attributi altisonanti è difficile, quasi impossibile, perché questo è uno di quei film tanto densi e carichi di situazioni, sensi, e movimenti che ad ogni visione regala allo spettatore nuovi angoli di visuale. Tuttavia, è facile innamorarsene già alla prima visione, se ci si lascia immergere nella sua struttura a mosaico, ma senza fessure, fatto di musiche, scenografie, spettacolo, coreografie, intrighi, azione, storia e sentimento.
Tante parole sono state spese dalla critica sul fatto che il cinema di Hong Kong, con il suo mescolio naturale di generi e ritmi, sia spesso difficile da incasellare: un cinema di corpi e movimento, di corpi in movimento, di passaggio tra un passato gonfio di tradizioni e un futuro incerto ma promettente, di contraddizioni e di attriti. Tsui Hark è, per molti versi, il campione di questo cinema, la bandiera e il suo vertice dai tempi della New Wave di fine anni ’70. Peking Opera Blues, da alcuni considerato uno dei migliori film in lingua cinese di tutti i tempi, è una delle pietre miliari della sua filmografia, forse la pietra miliare, ed è il film ideale per dare un occhiata più da vicino al lavoro, molte volte sfuggente ed estremamente sfaccettato, di questo grande regista, sia sotto il piano formale che da un punto di vista di poetica e contesto culturale.
La storia raccontata nel film parte nella Cina del 1913, nell’interegno tra la spodestata dinastia Qing e la Repubblica ispirata da Sun Yat Sen; il potere è nelle mani di alcuni signori della guerra fermamente intenzionati (anche con l’appoggio delle potenze europee) a capitalizzare al massimo la confusione politica ed economica. Uno di questi signori della guerra è l’antagonista principe nello schema dei personaggi di Peking Opera Blues; ad apporsi ai suoi maneggi di potere, in maniera più o meno volontaria, sono tre donne: sua figlia Tsao Wen (Brigitte Lin), da poco tornata in Cina dall’Europa, dove ha studiato, Pat Nell (Sally Yeh), figlia di un capocomico dell’Opera Cinese, frustrata nelle sue aspirazioni a recitare su un palco ancora riservato ai soli uomini, Sheung Hung (Cherie Chung) e un suonatrice e furfante, che naviga a vista cercando il colpo grosso che le permetta di permettersi una vita tranquilla. Nei loro sforzi tragicomici di contrasto all’ordine costituito, le tre si ritrovano coinvolte nelle maglie della resistenza democratica.
Estrapolando da 30 anni di suo cinema, in un mare di film i più disparati diretti, co-diretti, scritti e prodotti (da Butterfly Murderes a All About Women), si riescono a scorgere almeno un paio di aspetti ricorrenti, di temi forti. Su un paio ci vogliamo soffermare per parlare di Peking Opera Blues: il primo aspetto è la scissione dei personaggi di Tsui, che sono sospesi tra tra poli emotivi e politici i più distanti tra loro, contraddittori e polivalenti, e nonostante ciò mai bloccati da questo; il secondo aspetto è la volontà di assumersi il compito, come regista, di cucire temi stili agli antipodi, con la straordinaria bravura di farlo senza soluzione di continuità. In un cinema che è da sempre caratterizzato dalla tensione a mescolare i generi (arti marziali, azione, commedia, melodramma) e le situazioni, la grandezza si Tsui, la sua magia, è quella di nascondere i fili che legano questi generi e queste situazioni a rischio di disaccordo. Tsui è un grandissimo direttore d’orchestra, e la sua orchestra è fatta di regia, musiche, montaggio, scenografie, coreografie, direzione degli attori, e mai come in Peking Opera Blues tutti questi elementi hanno suonato così all’unisono. Nel film c’è una scena che rappresenta perfettamente la summa di questa sua capacità: il generale Tsao assiste a una rappresentazione dell’Opera Cinese, nella quale vediamo fondersi le storie di tutti i personaggi, dai rivoluzionari che tendono una trappola al generale alle vicissitudini di un capitano di polizia innamorato di un attore, dalla buffa ricerca di una cassa di gioielli alla voglia di una donna di scardinare le regole sessiste dell’Opera; in questa scena il teatro si trasforma da luogo di spettacolo a scena di una sparatoria e le raffinate movenze degli attori passano dalle acrobazie dell’Opera alle arti marziali nello scontro a fuoco con le guardie del generale, mentre nei dintorni del palcoscenico, da dietro le quinte ai tavoli della platea e fino ai bagni si svolgono una miriade di storie diverse e dai toni più eterogenei (dal tragicomico all’assurdo al romantico al drammatico, fino allo slapstick e alla tensione); è in mezzo a questo apparente caos, meravigliosamente controllato dalla regia, che le tre donne protagoniste trovano una loro strada e fanno la loro scelta (di campo).
Cherie Chung, Brigitte Lin, Sally Yeh: tre donne all’attacco del sistema, tra tradizione e modernità, tra opera cinese e aspirazioni importate dall’occidente.
Il titolo originale del film, Dao Ma Dan, si traduce proprio con “Donne Combattenti”, e Peking Opera Blues è il ritratto in movimento continuo delle loro avventure. E la donne di Tsui sono sempre personaggi estremamente complessi nelle loro contraddizioni; si prenda quella che è l’epitome della figura femminile nei suoi film, rappresentata perfettamente dal personaggio di Tsao Wen, sdoppiata e alla ricerca costante, lungo il corso di Peking Opera Blues, di una ricomposizione problematica (altro topos del cinema di Tsui, come si diceva al principio): donna e uomo, sospesa tra l’appartenenza all’oriente e le influenze della formazione occidentale, dilaniata dalle tensioni alla fedeltà famigliare e quelle volte alla rivoluzione democratica, combattuta tra la ragione e la sensibilità. La ricerca di questa ricomposizione, di questa riconciliazione, passa per la via di un’armonia tutta cinese costruita sull’alternanza degli opposti che convivono nei personaggi del film, Tsao Wen per prima. Che a decidere del destino delle storie che abitano i film di Tsui Hark siano le donne non è un fatto casuale, né un’idea di genere personale di questo regista, ma un retaggio profondo che lega indissolubilmente Tsui alla cultura e alla tradizione cinese, spesso abitata di donne forti e decise pronte a sacrificarsi per cause più grandi della loro stessa vita, donne guerriere come Hua Mulan e come tante eroine vissute e viventi sul palco dell’Opera Cinese. In questo solco il sodalizio, estrinsecato in poche pellicole ma denso di senso, tra lo stesso Tsui e Brigitte Lin, è perfetto, inimmaginabile con altri nomi al posto dei loro due: Tsui porta la Lin nel cinema di Hong Kong con Zu: Warriors from the Magic Mountain e lei ricambia regalando l’interpretazione perfetta di Tsao Wen in Peking Opera Blues, e da là parte la sua carriera magica fatta di personaggi memorabili e controversi, sempre magicamente vivi, come Asia The Invincibile (The East is Red), La strega dai bianchi capelli (The Bride with White Hair), il doppio Murong Yin/Yang (Ashes of Time), in un vortice di ambiguità di genere che non ha pari nel resto del cinema mondiale (quante volte Brigitte Lin ha interpretato una parte maschile, o quella di una donna sotto mentite spoglie maschili? Tante da rendere difficile numerarle).
Peking Opera Blues porta a spasso lo spettatore nel caleidoscopio mondo di Tsui Hark, per poi finire là dove era iniziato, che una grossa risata messa in bocca a una maschera dell’Opera Cinese (quella che nei titoli di testa vede la sovrimpressione del nome dello stesso regista, non a caso), come a dire che sì, che quell’ora e quaranta è una semplice parentesi di storie e di storia, che fare la rivoluzione o cercare di mantenere il potere, in quella Cina del 1913, è in fondo fatto di un momento, guardato da una prospettiva più generale; perché nel mondo di Tsui Hark, l’essere cinesi non può mai prescindere, per quanto si cambi o si cerchi di cambiare, da quell’inerzia di valori e tradizioni che vive ancora adesso nelle strade di Hong Kong, qualcosa che nemmeno l’imponenza minacciosa dei grattacieli gonfi di finanza e intrighi economico-politici può scalfire: i sistemi (politici, economici, sociali) cambiano, le rivoluzioni si susseguono, ma la cultura cinese non si perde mai. E non perde mai. Anzi, se la ride di gusto. Così come sembra se la rida sotto i baffi lo stesso Tsui Hark, il maestro dell’invisibile, il regista capace di gestire immense architetture sceniche senza far pesare ai suoi spettatori meccanismi e giunture che le reggono in piedi. Una lezione di leggerezza, la sua, di cinema puro, lezione in cui Peking Opera Blues assume giustamente il ruolo del capolavoro.