Inviato 26 May 2010 - 09:58 AM
Intervista al regista:
Quella Thailandia che non esiste più
Parla il regista Apichatpong Weerasethakul, palma d'oro a Cannes con il suo «Uncle BooMee» dove un uomo morente racconta i fantasmi di un paese attraverso i suoi ricordi personali. «Oggi, la situazione è terribile. Su Facebook o su Twitter in tanti chiedono ai militari o alle camicie rosse di ammazzare anche i loro amici. Nella mia vita, così come nel mio cinema, la dimensione politica è diventata molto importante»
Ci incontriamo la domenica mattina, presto, senza ancora sapere nulla della Palma. Nel giardino assolato del Grand Hotel Apichatpong Weerasethakul sorride. Ha l'aria un po' stanca, l'abituale eleganza, il giubbino di stoffa leggera tirato su fino al collo, occhiali sottili. Si preoccupa che arrivi presto la mia tazza di tè... «Sai è grazie all'Italia se sono riuscito a arrivare a Cannes, nel caos di questi giorni era impossibile per chiunque avere un visto per l'Europa. Ho chiesto ai francesi, ai tedeschi che non hanno fatto nulla. L'ambasciatore italiano, invece, mi ha dato subito il visto e eccomi qui».
Uncle BooMee, un film magnifico (acquistato ora dalla Bim), ispirato al libro A Man Who Can Recall the Past di Phra Sripariyattiweti, e pubblicato nell'83, ci racconta dello zio BoonMee, malato di una grave disfunzione renale, che ha scelto di passare gli ultimi giorni di vita nella sua tenuta in campagna, tra gli odori dolceamari del tamarindo e del miele, e i ricordi della vita passata. I fantasmi della moglie e del figlio divenuto scimmia/uomo, gli occhi rossi stellari gli fanno spesso visita. In quell'universo la Storia entra nel mito, la barriera tra umani e animali si dissolve.
Le vite passate scorrono nello stesso frame, ci dicono della memoria di un paese, la Thailandia, e al tempo stesso di una fare-cinema che non esiste più, di un'immagine scomparsa nell'era del digitale e della pretesa riproduzione «vera» della realtà - in questo senso un film splendidamente godardiano.
Il set del film, che fa parte del progetto multimediale «Primitive Project», è il nordest della Thailandia, in particolare il villaggio di Nabua. Che cosa ti ha portato a esplorare questa zona?
Ci sono diversi elementi, intanto sono cresciuto in quella regione anche se sono nato a Bangkok e dunque ne conoscevo abbastanza bene il background storico. Negli anni Settanta era controllata dai comunisti che avevano costituito dei governi autonomi in opposizione al potere centrale dei militari. Col tempo i comunisti divennero sempre più numerosi, erano operai, studenti, contadini. Avevano anche relazioni abbastanza strette col Laos e con il Vietnam, questa è stata sempre anche una zona di migrazioni. La repressione governativa è cresciuta fino a che si è scatenata una vera e propria guerra, l'esercito distruggeva villaggi interi, migliaia di persone sono state uccise, e di fronte a quella violenza sono intervenuti persino i monaci. Questo conflitto ha provocato una spaccatura terribile dentro a quasi tutti i villaggi, molti si erano uniti ai comunisti, altri invece sostenevano il governo che li aveva arruolati per uccidere i loro amici di sempre nella giungla.
È a questo che fa riferimento lo zio BoonMee quando spiega la malattia col suo karma? Dice che ha ucciso troppi comunisti nella giungla e troppi insetti alla fattoria, quasi come se la memoria fosse anche la sua malattia...
Mi sembrava importante che il film parlasse di tutto questo. Prima ancora del film, mentre preparavo l'installazione per il Primitive Project, ho viaggiato in molti villaggi, volevo raccogliere le storie delle persone che incontravo su una specie di diario. La mia idea era di concentrarmi sulla memoria di questi luoghi, e mi sono reso conto che di fronte a tanti che sono disponibili a ricordare ce ne sono moltissimi altri che rifiutano qualsiasi relazione col passato. È un fatto che trovo molto intrigante. Per me è fondamentale che il cinema si confronti con la memoria, e ne rivendichi la presenza, soprattutto in una realtà come l'attuale in cui la scomparsa delle ideologie ha unificato il mondo. Mi chiedo spesso come sia possibile salvaguardare le differenze in quei paesi, come la Thailandia, nei quali è evidente che si cerca di imporre a tutti i livelli una monocultura. Il mio compito come cineasta è invece esplorarne delle altre e farle conoscere.
In tutto il film, e in modo più invadente che in altri tipo «Tropical Maladie», c'è una costante presenza di militari. Nella memoria, sugli schermi accesi della televisione ...
La dimensione della politica è divenuta più forte nella mia vita in questi ultimi tempi. I militari hanno sempre avuto un peso determinante nel mio paese, di nuovo oggi sono al potere, controllano il parlamento e la realtà della Thailandia è sempre più influenzata da questo.
Sembra che oggi la storia del film si ripeta, i thailandesi che si uccidono nelle strade tra di loro.
È una situazione terribile... Su Facebook o su Twitter in tanti chiedono ai militari o alle camicie rosse di ammazzare quello o quell'altro perché è un loro nemico. E ci sono anche miei amici che lo fanno, persone che fino a pochi giorni fa si frequentavano... Sì, è davvero devastante pensando poi che da una parte ci sono i militari al governo dopo le elezioni anche se in molti pensano che non sono state chiare. Dall'altra c'è il miliardario Thaksin, l'ex-premier che è stato rovesciato dall'esercito col colpo di stato, una figura molto ambigua ma credo che per voi italiani sia abbastanza semplice capirne la tipologia.
Hai detto che il cinema per te ha il dovere di confrontarsi con la memoria.Possiamo dire, in questo senso, che Uncle BoonMee è anche un film sul cinema?
Sì. Sul cinema della mia giovinezza, sui melodrammi in 70mm che oggi non è più possibible fare, ma anche sui mélo televisivi. In questo senso è il mio film più personale, l'uomo che sta morendo è anche un modo di fare cinema che non esiste più, e che non sarebbe nemmeno possibile visto come si gira oggi. La morte dello zio BoonMee diventa il passaggio del tempo sullo schermo, la leggenda, il sogno. Per questo ho voluto lavorare con attori che avevano già interpretato altri miei film, e ho girato in molti luoghi utilizzando linguaggi diversi, l'installazione, i cortometraggi, ora il film. (Cristina Piccino)