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[CINEMA] Autohystoria

di Raya Martin, Filippine 2007

3 risposte a questa discussione

#1 Nosferatu

    Operatore luci

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Inviato 24 October 2011 - 07:48 AM

AUTOHYSTORIA

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Regia: Raya Martin
Sceneggiatura: Raya Martin
Cast: Lowell Conales
Nazione: Filippine
Anno: 2007


Un giovane cammina all'altro bordo della strada senza fermarsi, percorrendo due viali di Manila. Noi lo seguiamo dall'altro lato senza mai avvicinarci, un piano sequenza di 37 ininterrotti minuti, in bassa qualità, in bianco e nero, simile a un banalissimo video di sorveglianza. Chi è, cosa fa, dove si sta recando, perché, non ci è dato di saperlo. Fra noi e lui, il flusso freddo e anonimo del traffico nella capitale, ogni tanto qualche passante svogliato. A un certo punto raggiunge la sua meta, un'abitazione qualsiasi, entra, le luci si accendono, noi restiamo fermi a osservare dall'altro lato della strada. Non succede nulla di particolare.

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A un certo punto un messaggio compare per qualche secondo sullo schermo: "L'altra notte ho letto qualcosa su Andrés Bonifacio. Lo assassinarono con Procopio Bonifacio". Chi era Andrés Bonifacio? Probabilmente faremmo fatica a trovare un abitante delle Filippine che non lo sappia. E che non lo consideri un eroe nazionale. È stato un rivoluzionario di quella nazione, probabilmente il più importante, il fondatore e capo del Katipunan (l'organizzazione anticoloniale sorta nel 1892 che aveva come obbiettivo la liberazione delle Filippine dal dominio spagnolo). Per molti è stato il primo vero presidente delle Filippine, ma la realtà dei fatti è che non ha mai avuto la possibilità di diventarlo. Perché l'hanno ammazzato prima. A seguito di una divisione nelle forze rivoluzionarie, Andrés Bonifacio venne giudicato colpevole e giustiziato come cospiratore assieme al fratello Procopio Bonifacio. Un processo-farsa, con una giuria niente affatto imparziale, composta esclusivamente dagli uomini di Emilio Aguinaldo (un altro dei leader della rivoluzione) che successivamente assunse il comando dell'organizzazione e divenne in seguito il primo presidente della storia delle Filippine.

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Stacco. Ora nell'inquadratura vediamo uno snodo stradale di Manila, il traffico intenso che continua indefinitamente a girare attorno alla grande rotatoria. Nel mezzo un monumento nazionale, alcune bandiere che sventolano nella brezza leggera. Le immagini sono a colori adesso, la qualità è migliorata, il flusso umano che continua a ruotare imperturbabile scandisce il trascorrere del tempo, che sembra interminabile, ma acquista un'identità via via sempre più definita. Il peso di quelle parole per pochi secondi rimaste impresse sullo schermo comincia ad avere un senso, Adrés Bonifacio, la Storia, un punto fermo, atemporale, attorno al quale ruota l'esistenza stessa di un'intera nazione. Che nella sua corsa verso la modernità non può prescindere dalle proprie radici.

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Un altro cambio di scena, adesso siamo all'interno di un'automobile. Presto capiamo che il mezzo di locomozione è uno fra i tanti che continuavano a muoversi attorno a quella rotatoria. E continua a girare. Adesso non si tratta più di una massa omogenea di individui, celati all'interno delle proprie automobili. Due giovani sono legati, immobilizzati, prigionieri, visibilmente turbati mentre tentano di divincolarsi. La dimensione del privato comincia a subire il peso della Storia. Cos'è, un incubo? Un'allucinazione, una visione? Tutto è terribilmente reale, o quantomeno realistico.

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Ancora un cambio di scena, improvviso, brutale, ma ormai perfettamente consecutivo al precedente. I due giovani camminano fianco a fianco, legati ai polsi uno all'altro, nell'oscurità. Una forza misteriosa li sospinge. Soffrono, li hanno pestati, hanno paura, nella foresta, con una luna che fatica a penetrare con la sua debole luce per la volta arborea. Un'idea comincia a farsi strada nella nostra mente: vuoi vedere che quelli sono Andrés e Procopio Bonifacio? Impossibile, qui siamo nell'era moderna, mentre loro appartengono alla Storia. Si, ma a chi appartiene la Storia? La verità è che la Storia non appartiene a nessuno, ma al tempo stesso è parte integrante di ognuno di noi. Raya Martin sta usando il cinema per dimostrare come la Storia continua a rivivere e a circolare (o forse siamo noi che gli ruotiamo intorno) dentro di noi, a rinascere e a rivelarsi di continuo nel sociale e nel privato. Si, sicuramente è così, e infatti ecco la conferma: improvvisamente l'unica battuta del film. "Stai andando a spararci"? È il dramma di Andrés Bonifacio e suo fratello che rivive e si trasfigura in quello straordinario mezzo di comunicazione che è il Cinema.

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In attesa dell'inevitabile la potenza, l'impassibilità, l'incanto della natura si rivela in un'immagine di straordinaria bellezza. Ma questa volta dura poco. La Storia deve (ri)fare il suo corso. Siamo ai margini di un bosco, i due ragazzi aspettano quel momento per un tempo che sembra non finire mai. Quando ormai tutto pare essersi cristallizzato, un colpo di arma da fuoco spezza l'atmosfera. (Andrés Bonifacio) si accascia a terra. La Storia è (ri)vissuta, in un sogno, in un incubo. Si è trasfigurata in tutta la sua carica drammatica nella sostanza di cui è fatto il presente. Ancora alcune immagini che ci mostrano una natura che sembra impassibile, ma che in fondo è anch'essa una parte di quel fluire nel quale convogliano passato, presente e futuro. E a proposito del passato, un vecchio filmato compare sullo schermo, è la vera armata di Aguinaldo nel 18 Aprile 1902, qualche anno dopo la morte di Bonifacio. La magia del Cinema comincia a dissolversi ma, seppure estenuati da una visione impegnativa e quanto mai distante dal semplice intrattenimento, forse grazie al lavoro di Raya Martin, e al suo originale modo di guardare al passato, potremo anche noi osservare almeno per un istante il presente da una prospettiva leggermente diversa, e vederlo attraverso il velo invisibile e imprescindibile della Storia.


Articolo di Enrico 'Nosferatu' Rottigni


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«Sono venuti quelli dei Cahiers du cinéma, e mia figlia mi diceva che volevano sapere il tessuto connettivo tra quella targa che oscilla all'inizio del film Sei donne per l'assassino, dove c'è un temporale, e il telefono che casca quando la Bartok muore. Io non mi ricordavo neanche come finiva il film...»
(Mario Bava)

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#2 vasumitra

    Operatore luci

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Inviato 24 October 2011 - 10:17 AM

ciao nosferatu, la tua recensione restituisce perfettamente il senso di questa "operazione autohystoria". aggiungo il mio, scritto a caldo dopo la visione torinese di qualche anno fa e dettato da una autentica "sofferenza" e impotenza provata durante la visione: in effetti potrebbe sembrare un fatto negativo :em66: ma uno dei pregi del film è proprio che racconta una realtà storica, insieme non nasconde la sua natura di fiction, eppure ti fa provare ciò che probabilmente sentiresti assistendo a una reale esecuzione (che arriva con i suoi tempi, con le sue attese anche estenuanti, come giustamente suggerisci) senza ricorrere nemmeno allo spargimento di sangue.


“Tutta la storia è una masturbazione. La questione è solo su chi sta fantasticando”.

Il calvario di due fratelli filippini, di allora, di oggi: la versione personale, l’automatismo psichico di Raya Martin, autobiografia (del proprio paese insanguinato), incubo che funziona secondo le strategie dell’incubo, di cui ricordiamo e percepiamo solo alcuni particolari. Durante il lunghissimo piano sequenza che osserva dal bordo di una grande strada trafficata la camminata del fratello Minore, la distanza dalla scena, i suoni che fuoriescono dai locali, il passaggio delle macchine e dei camion che lo sottraggono completamente al nostro sguardo per poi ritrovarlo, grazie alla maglietta bianca, come bandiera per riconoscerlo nel buio e nel bianco e nero sgranato della betacam, catturano integralmente tutti i sensi a disposizione di chi osserva, tutti chiamati a vivere un’esperienza cinematografica in cui sono i rumori a decidere quando imporsi, gli oggetti che coprono il corpo su cui siamo concentrati a sovrapporsi a loro piacimento, senza che possiamo decidere troppo facilmente di “vedere “ ogni dettaglio. Il punto di vista che muta a seconda degli ostacoli e di una fantasticheria folle e disperante che si interroga come in sogno, senza poter governare la sostanza di ciò a cui si assiste. Questo procedimento fa pensare per esempio alle foto del giapponese Izima Kaoru, che realizza sequenze con immagini separate e progressive, in cui fotografa un soggetto, generalmente un corpo abbandonato, un cadavere, partendo da una grande scena di paesaggio in cui il corpo è solo un puntino riconoscibile a fatica e via via avvicinandosi impercettibilmente. Ma questo esperimento di Raya Martin non vuole neppure seguire una struttura graduale, per avanzamenti, e procede invece per campionamenti, come in un inseguimento di cui possiamo ricordare alcuni passi, alcuni vicoli, e soltanto delle schegge. Improvvisamente la scena viene invasa da colori saturi, la curva di una piazza notturna, illuminata, in cui il rumore delle sirene della polizia è tanto costante che dopo un po’ ci si chiede se si sta guardando la stessa scena ripetuta oppure, come in una di quelle webcam piazzate accanto ai luoghi turistici delle grandi metropoli, lo scorrimento ordinario della vita - finchè una sequenza di magnifica tensione e di angoscia quasi insostenibile, che si trasmette dal suono ossessivo della sirena mescolato a una musica pop che viene dalla radio, grottesca perché vivace, dalla ripetizione dei cartelloni pubblicitari e dallo spostamento dell’automobile che continua a muoversi circolarmente, svela che il primo fratello e il secondo sono prigionieri di una macchina che continua a percorrere in tondo la piazza, in una tortura estenuante che è già condanna a morte. La notte viene osservata come da un individuo piazzato su una barella, che guarda cime degli alberi e la luna perché è disteso; ma si tratta di un altro feroce inseguimento sulle schiene dei due fratelli legati insieme per un polso, che sembrano dorsi di animali per il modo febbrile in cui una torcia si avvicina a illuminarli e incalzarli, e “ci sparerai?” è una domanda rivolta ad un carnefice che è vicinissimo ai nostri occhi, in un frastuono assordante in cui si colgono field recordings di cascate, gemiti umani, in una interminabile e spaventosa offesa che si chiude con un cielo irreale e vuoto. Il silenzio cade su una verità impossibile da definire.
asilo sotto il mio passo tutto il giorno
i loro festini smorzati mentre la carne cade
erompendo senza paura né vento favorevole
le guantilope del senso e del nonsenso corrono
prese dai vermi per quel che sono


1935 samuel beckett

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#3 Nosferatu

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Inviato 24 October 2011 - 01:38 PM

Bel commento vasumitra! Mi fa piacere che qualcun'altro qui dentro lo abbia visto. È un film impegnativo e sicuramente non per tutti, ma anche importante e emblematico di quanto possa essere potente e versatile il cinema.

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«Sono venuti quelli dei Cahiers du cinéma, e mia figlia mi diceva che volevano sapere il tessuto connettivo tra quella targa che oscilla all'inizio del film Sei donne per l'assassino, dove c'è un temporale, e il telefono che casca quando la Bartok muore. Io non mi ricordavo neanche come finiva il film...»
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#4 François Truffaut

    Wonghiano

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Inviato 26 October 2011 - 10:43 PM

Be', non ho ancora visto questo film di Raya Martin.
Mi avete convinto a recuperarlo al più presto. :)
Sottotitoli per AsianWorld: The Most Distant Course (di Lin Jing-jie, 2007) - The Time to Live and the Time to Die (di Hou Hsiao-hsien, 1985) - The Valiant Ones (di King Hu, 1975) - The Mourning Forest (di Naomi Kawase, 2007) - Loving You (di Johnnie To, 1995) - Tokyo Sonata (di Kiyoshi Kurosawa, 2008) - Nanayo (di Naomi Kawase, 2008)





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