To the Ends of the Earth
Tabi no owari sekai no hajimari
Anno: 2019
Durata: 120 min.
Genere: Drammatico
Regia: Kiyoshi Kurosawa
Cast:
Atsuko Maeda, Tokio Emoto, Ryo Kase
Shota Sometani, Yusuke Hayashi
In missione in Uzbekistan per una trasmissione di viaggi, Yoko e la sua piccola troupe televisiva tentano di catturare un pesce mitico ma falliscono. La ragazza vaga in un grande teatro immaginando di cantare sul palco. Arrivano notizie dal Giappone su un grande incendio di una raffineria.
[recensione da Quinlan.it scelta dal subber MarcoMx]
To the Ends of the Earth è il terzo film di Kiyoshi Kurosawa ambientato fuori dal Giappone. L’operazione è diversa da quella di Daguerrotype, ambientato in una Parigi cosmopolita assimilabile a Tokyo con personaggi francesi, in una classica coproduzione che mette un noto regista orientale a fare un film in occidente. Più simile invece alla concezione di Seventh Code, dove personaggi giapponesi si trovano spaesati in una no comfort zone, in quella che viene percepita come una civiltà diversa e aliena. La Vladivostok di quel film è assimilabile all’Uzbekistan di questo. Le analogie con Seventh Code sono in effetti tante, a partire dall’avere la stessa attrice protagonista, Atsuko Maeda, anche una affermata cantante che, alla fine di entrambi i film, si esibisce in una canzone. Ma sono analogie superficiali: Seventh Code era un thriller/noir che si concludeva l’esplosione di una macchina. To the Ends of the Earth potrebbe essere associato a Tokyo Sonata per una analoga sottrazione dei meccanismi di genere, per un regista annoverato tra i protagonisti del j-horror. Tra questo ultimo film, Seventh Code, Tokyo Sonata e i j-horror, Kiyoshi Kurosawa mette in campo un complesso gioco di specularità. Se nel j-horror l’Unheimliche freudiano, il perturbante, si annida nella vita quotidiana, nell’ambiente domestico e famigliare, nei territori cui deleghiamo la massima sicurezza, in Seventh Code e ancora di più in To the Ends of the Earth, si annulla del tutto questa zona di garanzia da violare, in territori sconosciuti che sono perturbanti in quanto tali. L’unica protezione di cui può avvalersi Yoko è rappresentata dalla telecamera, da quando è ripresa, e dalla connessione, di familiarità, che questa crea con il suo paese, dove tantissimi spettatori la staranno seguendo.
Nel villaggio globale sarà ancora la televisione, di rimbalzo, a riportare alta l’inquietudine, con le immagini dei grossi incendi che divampano in Giappone e con l’apprensione di Yoko per il suo fidanzato pompiere. L’Unheimliche nel quotidiano rappresenta la struttura di Tokyo Sonata in un percorso di annullamento degli elementi esteriori del genere. Quel film in effetti poteva segnare una transizione di un autore vincolato a un genere specifico verso orizzonti cinematografici più ampi in cui poter esprimere i propri temi e le proprie ossessioni, come è successo per Cronenberg o De Palma. L’horror di Tokyo Sonata è l’orrore reale della disoccupazione e della crisi, ma anche quello della guerra in Iraq, il terrore di un paese lontano che entrava a casa nostra, nel nostro quotidiano, nei nostri schermi televisivi domestici. Come il protagonista di Happy Together di Wong Kar-Wai, che vede la sua Hong Kong ribaltata con l’handover dall’Argentina, così Yoko e i suoi compagni giapponesi vedono l’incendio che divampa in una raffineria, di estensione enorme, che non si riesce a domare. Una di quelle immagini del disastro cara alla cultura popolare nipponica, anche per la violenza connaturata nel suo stesso territorio, altamente sismico, e per i traumi passati e presenti, come il disastro nucleare di Fukushima Dai-ichi. Sono gli stessi giapponesi della troupe a ipotizzare un incidente analogo, quando vedono le prime scene televisive, salvo poi apprendere la reale natura di quella nuova catastrofe.
La crew televisiva protagonista di To the Ends of the Earth, riproduce in piccolo quella troupe più grande di Kiyoshi Kurosawa, del profilmico, che la riprende, come in un gioco di specchi. In entrambi i casi si tratta – lo si può dedurre per quella esterna – di tecnici giapponesi che si avvalgono di personale locale. Kurosawa qui mette in scena l’atto stesso di fare cinema. La scena di Yoko sulla giostra, ripetuta più volte, appare proprio come il procedimento, puramente cinematografico, di rifare una ripresa se non è venuta bene o per poi scegliere quella migliore.
La specularità tra Giappone e Uzbekistan è anche geografica, come si dice nel film. Da una parte un paese, come quello dell’Asia centrale, che non ha sbocchi sul mare, dall’altra un arcipelago. Parliamo di un regista che ha inteso il j-horror in una dimensione liquida, che ha sempre usato le atmosfere umide, brumose, marine, lacustri – si pensi solo a Retribution in questa chiave –, per permeare i suoi ambienti malsani dove albergano fantasmi, che ha usato l’acqua come elemento primario di un suo mondo fluttuante, o come metafora di una zona d’ombra del subconscio. Anche in To the Ends of the Earth l’acqua è contemplata in quelle scene del lago dove i membri della troupe cercano invano di catturare un pesce leggendario, una creatura mitologica, un mostro di Loch Ness che rappresenta i mostri che si annidano nei territori impervi della mente, come i plesiosauri di Real, visualizzabili solo in quel film con un macchinario fantascientifico in grado di esplorare il subconscio nello stadio intermedio tra la vita e la morte. La catarsi del film avverrà solo lontano dall’acqua, tra le montagne, una finis terrae, come recita il titolo internazionale del film, dove si compie così la fine del viaggio e l’inizio del mondo, come nel titolo giapponese (旅の終わり、世界の始まり). Un momento di catarsi cinematografico che coincide con un’esecuzione musicale, ancora come in Seventh Code e soprattutto in Tokyo Sonata. Se in quel film era il brano Clair de lune della Suite Bergamasque di Debussy, suonata al pianoforte dal ragazzino cui veniva proibito di prendere lezioni di musica, qui Yoko/Atsuko Maeda intona l’Hymne à l’amour di Édith Piaf nella versione giapponese prima di Fubuki Koshiji (la prima delle tante cover di quella celebre canzone) e poi di Hikaru Utada, dopo aver invano sognato una esibizione canora in pubblico. Una canzone di per sé estrema, dedicata dalla grande interprete dell’esistenzialismo al suo grande amore, il pugile Marcel Cerdan, morto in un incidente aereo, e da lei cantata durante il concerto che volle comunque fare il giorno stesso della tragedia, nel quale svenne sul palco.
In un paesaggio montuoso, tra Tutti insieme appassionatamente e Werner Herzog (tra le tante finis terrae del suo cinema vengono in mente quelle due isole nell’angolo più remoto del mondo abitato, da cui parte un gruppo di suoi abitanti in cerca di una nuova terra, nel finale di Cuore di vetro), ha compimento il percorso metariflessivo di Kiyoshi Kurosawa sul suo cinema.
(versione: 1080)
Messaggio modificato da fabiojappo il 23 April 2020 - 07:30 PM