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[RECE][SUB] Rice People

 foto Nosferatu 02 Jan 2011

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[dual audio]




Regia: Rithy Panh
Sceneggiatura: Shahnon Ahmad (romanzo), Ève Deboise, Rithy Panh
Cast: Peng Phan, Yong Poeuv, Chhim Naline, Va Simorn, Sophy Sodany, Muong Danyda, Pen Sopheary, Proum Mary, Sam Kourour
Colonna Sonora: Jean-Claude Brisson, Marc Marder
Anno: 1994
Durata: 125'
Paese: Cambogia
Lingua: Khmer






"Bisogna tornare alla purezza del chicco di riso". (Pol Pot)


TRAMA

La storia di una famiglia la cui vita è scandita dalle stagioni della raccolta del riso. Un uomo e una donna, e la loro prole, che giorno dopo giorno lavorano la terra, nella speranza di un buon raccolto, di poter avere l'essenziale per nutrirsi e nutrire i propri figli. Poeuv e Om i loro nomi, una coppia normale, con una porzione di terra da coltivare, proprio come gli altri abitanti del villaggio in cui vivono. Unico problema: nemmeno un figlio maschio; sette figlie, sette bocche da sfamare. E quando le pessime condizioni climatiche, o più semplicemente una sorte avversa, si interpongono fra i loro sforzi e quello che sarà il raccolto, le preoccupazioni aumentano. Le figlie più grandi, quelle già in grado di lavorare nei campi, devono sacrificare le loro aspirazioni per sostenere la famiglia. E Poeuv, vero motore trainante e stoico lavoratore, non può permettersi il lusso di allontanarsi dalle risaie. Per nessun motivo al mondo.




"Il saggio sa che la vita non è che una fiammella scossa da un vento violento". (Scritta presente sull'architrave di una porta di Angkor)


COMMENTO PERSONALE

Che la specialità di Rithy Panh siano i documentari, risulta evidente anche dalla sola visione di Rice People, primo film di finzione del cineasta cambogiano. Girato con uno stile semi-documentaristico e con attori non professionisti, si avvale di una fotografia eccellente, che indugia sovente su paesaggi rurali e momenti quotidiani nella vita delle risaie. Anche senza conoscere il terribile passato di questo regista e della Cambogia tutta, non è difficile lasciarsi trasportare dalle sue gradevoli immagini, che ben descrivono le difficoltà della vita contadina, ma anche la profonda simbiosi spirituale con la natura di questa gente che vive un interessante rapporto di amore/odio con la propria terra. Ma se nelle fasi iniziali la sensazione è quella di un film che vuole semplicemente mostrare, mentre i minuti scorrono, e le vicende si delineano sempre più marcatamente nei confini del dramma familiare, aumenta la sensazione che l'intento sia quello di fornire una chiave di lettura più complessa che trova significato nella storia del paese natale del regista e nella prima perduta e poi (non) ritrovata identità del popolo cambogiano. Senz'altro va riconosciuta a Rithy Panh la capacità di raccontare una vicenda privata con grande sensibilità rendendo piacevole la pellicola anche allo spettatore meno attento, ma al tempo stesso definire personaggi e situazioni in modo che possano facilmente acquistare i connotati della metafora e dell'allegoria. E così diventa facile vedere in una donna che perde ogni punto di riferimento e che si trova a vagare in un campo di riso con lo sguardo assente la tragedia sociale di una nazione intera che ha vissuto l'orrore della privazione della propria identità e che ancora oggi arranca nel tentativo di ritrovare se stessa. Forse la chiave di lettura dell'intero lungometraggio si materializza in quei pochi secondi, in quell'incubo/ricordo/presagio, che una persona morente (ri)percorre negli ultimi istanti che gli rimangono da vivere: in quelle immagini che sembrano appartenere ad un altro mondo, cariche di una profonda drammaticità, scorgiamo nitidamente il valore di questa storia, che in una visione più ampia si trasforma e diventa simbolo provando a mostrarci delle ferite che forse soltanto chi le ha vissute può comprendere fino in fondo.




"Preservare la memoria della Cambogia. Non si può ricostruire il paese senza ricreare una memoria, una cultura, basi di una propria identità". (Rithy Panh)


BIOGRAFIA DEL REGISTA

Rithy Panh nasce a Phnom Penh, capitale della Cambogia, nel 1964. All'età di appena nove anni vede salire al potere il Partito Comunista di Kampuchea di Pol Pot, meglio conosciuto col nome di Khmer Rossi. La disgrazia si abbatte anche sulla sua famiglia, come su quella di milioni di cambogiani che negli anni a seguire faranno i conti con l'orrore provocato da quello che è stato considerato uno dei regimi più violenti del XX secolo (si calcola che in rapporto alla popolazione abbia causato più morti del PCUS di Stalin). Rithy viene espulso dalla capitale, assieme ai fratelli, ai genitori e a tutti i parenti che vengono costretti ai lavori forzati nei campi. In pochi anni, uno ad uno, i famigliari di Rithy soccombono a causa del superlavoro e dalle malnutrizione. Rimasto solo, cerca la via della fuga nel 1979 e si rifugia per un breve periodo in un campo profughi a Mairut, in Thailandia. Nel 1980 si reca a Parigi e inizia ad apprendere il mestiere di falegname in una scuola professionale, ma non sarà questa la sua vocazione: una sera, ad una festa, qualcuno, per gioco, gli mette in mano una videocamera. E scatta la scintilla, nasce l'amore per il cinema. Si diploma alla French National Cinema School e comincia a girare alcuni documentari che raccontano la vita cambogiana, fra presente a passato. Il suo primo lungometraggio di fiction è Rice People, del 1994, candidato per la Palma d'Oro a Cannes (quell'anno il premio se lo aggiudicò Pulp Fiction di Tarantino). Negli anni seguenti, Rithy torna al documentario, continuando a scavare nelle dolorose ferite della sua terra natale. Nel 2003 viene premiato col François Chalais Prize per il suo S-21, La Machine de Mort Khmère Rouge, che a 25 anni di distanza, attraverso la testimonianza di vittime e carnefici, racconta la storia di Tuol Sleng, scuola trasformata in carcere sotto il regime di Pol Pot, nella quale vennero torturati e uccisi circa 14.000 detenuti politici.



Di seguito alcune dichiarazioni del regista (molto interessanti, a mio parere) che descrivono la sua visione del cinema, testimoniano le brutalità dei Khmer Rossi e raccontano alcune problematiche sociali della Cambogia moderna.


Sul (suo) cinema
Non dimenticherò mai quello che è successo, ma ho capito che devo affrontarlo se voglio sopravvivere. E ho scelto il cinema per tenere viva la memoria. Per me il cinema serve a rievocare la memoria del passato, in modo che le generazioni di oggi e di domani possano ricordarsi quello che è successo e imparare una lezione. Nel mio Paese, il genocidio ha sradicato drasticamente la memoria. Abbiamo perso la dignità, la nostra stessa identità; e voglio riconquistarle grazie al cinema.

Quando si esce da una tragedia come quella vissuta dalla Cambogia per trent'anni ci sono due atteggiamenti possibili: parlare, o difendersi con il silenzio. Io rispetto entrambe le scelte, ma personalmente credo che bisogna parlare. Ho bisogno di dire. Ho avuto la chance di sopravvivere, forse la resistenza fisica, e il minimo che posso fare è rendere dignità a quelli che sono morti. E' questo che considero un'urgenza di fronte alla storia, alla memoria distrutta, all'identità annientata. L'urgenza di uscire dalla cultura della violenza, dalla pura sopravvivenza. Questo mi ha fatto scegliere un cinema certo un po' politico, sociale: creare un film per me è sempre un'occasione per incontrare e discutere con le persone.


Sul regime
Tutti erano stati mandati in campagna quando i Khmer Rossi hanno preso il potere, dunque io sono andato a lavorare nei campi come tutti. A partire dai 7 anni i bambini non stavano più con i genitori ma con gli altri bambini, nella rivoluzione. Il campo di rieducazione? Quello è stato perché un giorno, con tre amici, ho visto il caposquadra che pescava la parte migliore della zuppa di riso. Stava prendendo tutto il buono, e noi tornati dai campi affamati trovavamo solo brodaglia. Allora ho detto che "nella Kampuchea democratica questo non è giusto, rivoluzione significa che siamo tutti sullo stesso livello, non puoi mangiare il meglio e lasciarci l'acqua". Il giorno dopo ci hanno mandato nel campo speciale, cioè dove il lavoro è più duro.
Nel campo speciale il regime era lo stesso per adulti e ragazzi. Le guardie avevano un po' più di riguardo per noi, se non finivi la tua parte di solito non ti picchiavano - ma per il resto, era massacrante. Ne esci stremato, e ancora ti è andata bene che sei scampato all'esecuzione. Molti si chiedono perché non c'è stata una rivolta. Sento anche parlare di "complicità" oggettiva tra vittime e oppressori": io lo trovo ingiurioso. In Cambogia le persone sono state disumanizzate, prima che uccise. Prima hanno spostato un'intera popolazione, mandato la gente di città in campagna, spostato le persone dai loro villaggi. Poi hanno distrutto la memoria, cosa molto più facile di quanto si può immaginare: prendi una persona, la deporti, la separi da parenti e amici, la metti in un regime di privazione, le neghi ogni informazione, scuola, lettura, religione. Le togli ogni oggetto personale, perfino un coltello e forchetta erano una deviazione capitalista. Questo è il terrore. Nessuno resiste a questa disumanizzazione - chi sta seduto a Parigi non lo può sapere. Certo c'è stata anche una "zona grigia", qualcuno che denuncia qualcun altro sperando di salvarsi. Proprio per questo credo che non puoi uscire dal trauma della guerra senza recuperare identità e cultura, ricostruire una solidarietà e dei valori comuni che sono stati uccisi dal genocidio. La Cambogia sta ricominciando a tentoni a ricostruire un'economia, ma non si rimetterà in piedi finché non affronta il suo problema di identità e di memoria.


Sulla Cambogia post Khmer Rossi
La Cambogia comunista aveva un regime di collettivizzazione totale molto dura. Poi un giorno, di colpo, è passata a un regime ultraliberalista altrettanto estremo. Oggi è la legge della giungla: prosperano i furbi, gli opportunisti. Ci sono persone divenute milionarie in tre o quattro anni, mentre c'è una maggioranza persa, che non sa come mangiare. Il fossato della diseguaglianza si approfondisce, e con la povertà prosperano la prostituzione e la delinquenza. Anche il fossato tra città e campagna si approfondisce. La gente di campagna sogna di andare in città - ma a fare cosa? Nel migliore dei casi diventare operai a 30 dollari al mese, lavorando sette giorni su sette. Non è la fabbrica europea dove i lavoratori hanno dei diritti: la fabbrica in Cambogia significa uno sfruttamento bestiale, le persone ridotte a pura manodopera, quantità. D'altra parte il potere finanziario è controllato da una piccola élite. Quella minoranza compra le terre dai contadini impoveriti, costretti a vendere perché il campo non gli da abbastanza per vivere, così aumenta il numero dei senza terra che sognano di andare in città: e d'altra parte non c'è nessuna politica di sviluppo rurale, che non significa solo mettere una pompa idraulica ma avere un progetto, far rivivere le campagne, portare le scuole, valorizzare... E poi, la gente di città non sa più cosa significa vivere in campagna. E' come un altro mondo.

Sulla cultura cinematografica in Cambogia
A Phnom Penh non ci sono sale cinematografiche né teatri: le proiezioni avvengono in centri culturali, presso salette di associazioni, qualche galleria, officine. Resta qualcosa di danza, ma non c'è una pièce teatrale in circolazione. Voglio dire che una grande civiltà, che aveva una vocazione artistica, è annientata. Al tempo dei Khmer Rossi, tra il '75 e il '79, è scomparsa la scuola. Sì, ci sono i templi di Angkor, ma la cultura è distrutta. Che cinema circola? Il karaoke, i film di Kung Fu, un po' di cinema americano del genere di Schwarzenegger. Roba per abbrutire, macchine per cancellare la memoria. Ma nessuno sguardo sulla società, sulla politica, sui cambiamenti sociali, i traumi collettivi della guerra. E non perché manchi il bisogno di questo sguardo ma perché la produzione è controllata da commercianti, un videoclip di karaoke rende più di un documentario e questo è l'unico criterio che conta.

Su Rice People
Per tutti era la prima volta che recitavano in un vero film. C'erano danzatori, cantanti, contadini, per lo più interpretavano sé stessi. Non ho nulla contro gli attori professionisti, ma in Cambogia non ne abbiamo, nel senso formale. Così nello scegliere il mio casting mi interessa l'attitudine a interpretare ma soprattutto cerco persone che abbiano qualcosa di forte da esprimere. In questo senso fare un film è un progetto collettivo, significa imbarcarsi in un'avventura, hai un budget e un progetto e ciascuno ci mette la propria sensibilità e immaginazione.




La traduzione è stata effettuata al 50% da me e al 50% dall'utente can tak. Il film merita davvero e mi auguro che venga visto e apprezzato dalla maggioranza di voi. I sottotitoli sono adattati alla versione dual audio (originale e spagnolo). Se qualcuno avesse difficoltà ad identificarla non esiti a contattarmi.



Allega file  Rice.People.AsianWorld.V2.zip (18.54K)
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Messaggio modificato da fabiojappo il 03 November 2014 - 04:48 PM
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 foto battleroyale 02 Jan 2011

Meraviglia! :em83: :em41: :) ;)

Un film monumentale che non poteva mancare nel nostro archivio!:em41: :em41: :D :em28:


Grazie :em72: :em72: :em72:
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 foto ronnydaca 02 Jan 2011

Grazie a tutti e 2, mi ispira moltissimo :em83:
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 foto Nosferatu 02 Jan 2011

Grazie a voi. :em83:

Il film è davvero imprescindibile a mio parere, anche se una minima conoscenza di quello che è successo in Cambogia e della biografia del regista è molto importante per capirlo e apprezzarlo fino in fondo.

Mi raccomando, vedetelo in molti!
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 foto fabiojappo 02 Jan 2011

Grazie !!! :em41:
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 foto Shimamura 02 Jan 2011

Grazie, gran film! Lo rivedrò volentieri!
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 foto pierlues 02 Jan 2011

Mamma mia che chicca! Non si sa più cosa dire, come ringraziare, quali complimenti fare... :em41:
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 foto Cignoman 02 Jan 2011

Mi inchino davanti a questa pellicola, grazie infinite per la traduzione!
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 foto ziadada 02 Jan 2011

Grazie, desideravo vederlo da tempo.
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