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[RECE][SUB] Affair in the Snow

traduzione di anna 90

8 risposte a questa discussione

#1 anna 90

    Microfonista

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Inviato 17 June 2011 - 12:34 PM

Affair in the Snow

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“Contro i sentimenti siamo disarmati, poiché esistono e basta, e sfuggono a qualunque censura. Possiamo rimproverarci un gesto, una frase, ma non un sentimento: su di esso non abbiamo alcun potere.”
Milan Kundera
da “L'identità”


Yoshida Yoshishige (吉田喜重)

Yoshida Kiju (Yoshishige) nasce il 16 febbraio 1933 nella prefettura di Fukui (nella regione del Chubu, sulla costa nord-occidentale dell'isola di Honshu). Nel 1951 si iscrive alla facoltà di Letteratura francese alla Tokyo Daigaku (東京大学, Università di Tokyo) dove si avvicina al pensiero di Sartre.
Nel febbraio 1955 sostiene l'esame di ammissione per entrare alla Shochiku (松竹株式会社 Shochiku Kabushiki Gaisha), insieme a Ishido Toshiro (石堂淑朗), suo compagno di università (in seguito sceneggiatore e collaboratore di Ōshima e dello stesso Yoshida). Nella commissione d'esame ci sono Oba Hideo (大庭 英雄) e Kinoshita Keisuke (木下 恵介). Viene quindi assunto negli studi Ofuna della Shochiku dove viene assegnato ad una classe di preparazione. A quell'epoca era consuetudine che i nuovi arrivati venissero inseriti in classi di preparazione, per poter apprendere il lavoro dai più anziani dei vari reparti e in seguito accedere ai vari gruppi che facevano capo ai registi. Qui conosce Oshima Nagisa (大島 渚), già alla Shochiku da un anno e inserito nei gruppi di Horiuchi Manao e Oba Hideo. Con Oshima stabiliscono una strategia per “prendere il potere” alla Shochiku: mettersi in fretta alla guida di gruppi importanti. Yoshida entra quindi nel gruppo di Kinoshita come aiuto regista, rompendo il tradizionale sistema per ordine di turno che prevede una scala gerarchica data dall'anzianità professionale.
Nell'autunno dello stesso anno Oshima propone di creare un gruppo e di iniziare a scrivere delle sceneggiature. Insieme a, tra gli altri, Ishido, Tamura Tsutomu e Takahashi Osamu fondano la rivista autofinanziata Shichinin (Sette persone), sulla quale pubblicano i propri scritti sul cinema e le proprie sceneggiature. La rivista circola tra i registi della compagnia, tra cui Kinoshita che leggendo una sceneggiatura apparsa sul primo numero decide di affidare a Yoshida il ruolo di primo regista. A partire da Yuyakegumo (夕焼雲, Nubi al tramonto, 1956) fino al suo esordio, Yoshida lavora quasi sempre con Kinoshita.
Il primo film come regista arriva nel 1960 con Rokudenashi (Buono a nulla, 1960) che segna l'inizio della cosiddetta Shochiku Nuberu Bagu (traslitterazione in katakana di Nouvelle Vague) insieme a Seshun zankoku monogatari (青春残酷物語, Racconto crudele della giovinezza, 1960) e Tayu no hakaba (太陽の墓場, Il cimitero del sole, 1960) di Oshima. Nello stesso anno gira Chi wa kawaiteru (血は乾いてる, Sangue secco, 1960) da una sceneggiatura scritta tre anni prima in cui si possono notare alcuni tratti del cinema di Resnais.
Lo stesso anno Oshima abbandona la Shochiku, dopo che Nihon no yoru to kiri (日本の夜と霧, Notte e nebbia dal Giappone, 1960) viene ritirato dalle sale. Yoshida decide invece di rimanere, accontentandosi della relativa libertà concessa dalla Shochiku piuttosto che rischiare di non riuscire più a realizzare film, e nel 1961 gira Amai yoru no hate (甘い夜の果て, La fine della dolce sera, 1961). Da lì in poi realizza un solo film all'anno, preparandosi, di fatto, all'inevitabile rottura con la compagnia.
Gli ultimi film prodotti dalla Shochiku sono Akitsu onsen (秋津温泉, Le terme di Akitsu, 1962), Arashi o yobu jūhachi-nin (嵐を呼ぶ十八人, Diciotto ragazzi burrascosi, 1963) e Nihon dasshutsu (日本脱出, Fuga dal Giappone, 1964). Il soggetto originale di Akitsu onsen era stato pensato espressamente per Okada Mariko (岡田 茉莉子) , già allora una delle più famose e apprezzate attrici del Giappone, ed è in gran parte un inno alla sua bellezza e alla sua freschezza. Okada diventerà compagna di vita e di lavoro di Yoshida, interpretando quasi tutti i film che seguiranno l'uscita dalla Shochiku, che avverrà in seguito ai tagli subiti da Nihon dasshutsu.
Nel 1965 Yoshida fonda la sua casa indipendente, la Gendai Eiga-sha.
Con la propria casa di produzione realizza sei film, una “trilogia del sesso” composta da Mizu de kakareta monogatari (水で書かれた物語, Una storia scritta d'acqua, 1965), Onna no mizuumi (女 みづうみ, Lago di donna, 1966) e Joen (情炎, Fiamma d'amore, 1967) e una “trilogia della storia contemporanea del Giappone” composta da Erosu purasu Gyakusatsu (エロス+虐殺, Eros + Massacro, 1969), Rengoku eroica (煉獄エロイカ, Eroica – Purgatorio, 1970) e Kaigen rei (戒厳令, Legge Marziale, 1973). Alle due trilogie si aggiunge Juhyo no yoromeki (樹氷のよろめ, Il barcollio dell'albero gelato, 1968), tutti prodotti dalla Gendai Eiga-sha e distribuiti da una grande major.
Dal 1973, anche in seguito ad un grave intervento chirurgico allo stomaco, Yoshida si allontana da cinema e per quindici anni si dedica al documentario e al teatro.
Tra il 1974 e il 1977 lavora ad una serie di documentari d'arte per la televisione, Bi no bi (Bellezza di Bellezza, 1974-1977), sui musei del mondo, girando in Francia, Italia, Spagna ed Egitto. Dal 1978 al 1982 è in Messico per un progetto, Bokyo no toki (Nostalgia per la terra natia) che sfortunatamente non vedrà mai la luce. Dall'esperienza nasce invece il libro “Messico, La metafora allegra” (Tokyo, 1984). Nel 1988 il direttore dell'Opéra de Lyon affida a Yoshida la regia teatrale di Madame Butterfly di Puccini, che dal 1990 al 1995 sarà in tournée in Francia e negli Stati Uniti. Yoshida sceglie per l'opera di Puccini, poco amata in verità dai giapponesi, un ambientazione moderna facendo riferimento alla fine della guerra e in particolare alla bomba su Nagasaki.
Nel 1986 si riavvicina al cinema con Ningen no yakusoku (人間の約束, Accordo tra gli uomini, 1986) cui segue due anni dopo Arashi ga oka (嵐が丘, Onimaru – Cime tempestose, 1988) tratto da Emily Brontë e infine da Kagami no onnatachi (鏡の女たち, Donne allo specchio, 2002), tutti e tre selezionati a Cannes.
Nel 1995 partecipa al film collettivo Lumière et compagnie (1995) per il centenario del cinema, che coinvolge 40 registi di fama mondiale, chiamati a girare un corto non più lungo di 52 secondi con l'originale “cinématographe” Lumière. Yoshida, nello stesso anno, realizza un documentario sull'operatore Lumière in America latina, Gabriel Veyre, considerato, per la sua sensibilità e abilità, uno dei primi veri “autori” della storia del cinema.
L'ultimo lavoro nel 2004, quando collabora al documentario collettivo Bem-Vindo a São Paulo (Benvenuto a San Paolo, 2004) per il 450° anniversario della fondazione di San Paolo in Brasile.




Il cinema di Yoshida Kiju

Yoshida Kiju è uno di quegli autori, formatisi principalmente durante il boom del cinema politico degli anni ’60, che sono rimasti nella penombra di altre, più imponenti figure. Soprattutto in Europa, dove lo si è a lungo considerato un epigone di grandi nostrani come Antonioni, Bergman e Godard, dei quali, in effetti, Yoshida ha ripreso le tematiche, in maniera molto occidentale, ma sapendole reinterpretare attraverso gli occhi della propria cultura e della propria storia.
In effetti, di fronte alle opere di Yoshida, non si può non rimarcare come le tematiche affrontate siano proprie a un cinema fortemente contestualizzato a un’epoca, gli anni ’60, periodo della contestazione non solo politica ma soprattutto culturale, dove le logiche tradizionali della narrazione e della forma cinematografica vengono messe in dubbio e destrutturate, e in una voga filosofica e culturale che si può inserire nell’esistenzialismo di Jean Paul Sartre (Yoshida, d’altronde, si laurea proprio con una tesi su L’essere e il nulla). I temi e le forme, la destrutturazione del tempo e dello spazio oltre che del testo filmico nell’ipotesi di un anti-cinema spesso prospettata, sono dunque frutto di un’influenza reciproca e internazionale. A una visione superficiale datata, conseguenza di un’epoca e delle sue logiche, le pellicole di Yoshida riescono tuttavia ad apparire, a uno sguardo più attento, estremamente contemporanee.
Fortissima nel cinema di Yoshida è l'influenza dell'opera di Ozu Yasujiro (小津安二郎) , uno degli autori che sono stati, per lui, i più grandi artefici di quell’idea di anti-cinema, inteso come anti-narrazione lineare e anti-montaggio tradizionale, che farà propria.
Ci sono dunque due caratteri, apparentemente fondamentali nel cinema di Yoshida: la reinterpretazione orientale di alcuni codici occidentali, e, in secondo luogo, un fil rouge che unisce la finzione e il documentario, non tanto nella destrutturazione quanto nella messa in scena della sensualità. La sua personale reinterpretazione dell’anti-cinema e l’aspetto sensuale sono due caratteri su cui vale la pena soffermarsi studiando il cinema di Yoshida. È, d’altronde, proprio nel momento in cui queste due figure s’incontrano, che la potenza diremo “politica” della sua opera prorompe oltre lo schermo.
A livello formale, il cinema di Yoshida appare come una sequenza di quadri astratti, estremamente concettuali, ove azioni, gesti e dialoghi sono destrutturati su differenti piani per mettere in luce la finzione a cui sono posti.
Decompone dunque l'armonia degli sguardi: durante i dialoghi, i personaggi semplicemente non si osservano, recitano fissando il vuoto, spesso fuori sincrono mentre le loro voci fuori campo accompagnano altri gesti. I due giovani studenti di Erosu purasu Gyakusatsu urlano, mimano scene di film rendendosi coscienti del loro ruolo di simulacri della rappresentazione.
Yoshida frammenta il tempo, inserisce spezzoni decontestualizzati e non lineari durante la narrazione, ibrida storie diverse e opera una vera e propria decostruzione del genere. Nel caso di Akitsu onsen un melodramma è reso in maniera anti-drammatica. Yoshida opera un vero e proprio anti-pathos.
D’altra parte, le inquadrature impongono una tale struttura plastica all’immagine da sembrare delle gabbie, di senso ma anche istituzionali, in cui si trovano i personaggi. La macchina da presa riprende attraverso finestre o pannelli d’interni giapponesi, usa qualsiasi occasione, persino un ponte o un treno in corsa, per imprigionare i suoi attori in una prospettiva estremamente artificiale che non può non rinviare allo statuto stesso della macchina da presa nell’atto del riprendere. È il caso di Joen e, inversamente, di Rokudenashi, dove, tra le citazioni dalla Nouvelle vague francese, sia da Godard che da I quattrocento colpi di Truffaut, Yoshida riempie la narrazione di elissi e di piani sequenza; l’utilizzo della camera a mano, prossima ai personaggi, dà l’impressione di una serie di sequenze slegate e disturbanti.
La volontà evidente di Yoshida, contestualizzata all’epoca di produzione, è quella di rivelare la struttura autoritaria e narrativa del cinema, quella che fa credere allo spettatore di trovarsi di fronte alla realtà quando è la sua rappresentazione a mostrarsi. Il cinema è menzogna ci dice Yoshida e le strutture di potere reggono questa menzogna restituendocela come verità.
L’anti-cinema politico di Yoshida pare dunque il parallelo del cinema europeo dell’epoca, nei temi e nello stile. Ci sono, però, una serie di reinterpretazioni che lo rendono originale e unico. In particolare nella seconda trilogia, che si rifà alla storia contemporanea del Giappone. In Erosu purasu Gyakusatsu ci si riferisce a un anarchico ucciso decenni prima mentre nell’ultimo, Kagami no onnatachi, si affronta la rappresentazione di ciò che, secondo Yoshida, fino a quel momento non si sarebbe potuto rappresentare, la bomba atomica e il suo influsso nella psicologia dei sopravvissuti.
Ma la reinterpretazione giapponese non passa solo attraverso i contenuti, spesso riferiti al Giappone contemporaneo e alle sue ferite recenti (la guerra o la lotta contro il regime, il boom economico e la scomparsa dei valori). Anche dal punto di vista dell’espressione, la decostruzione dei codici cinematografici operata da Yoshida ha una prospettiva personalissima e spesso riferita alla cultura d’origine. In Erosu purasu Gyaksatsu l’artificiosità dei movimenti e delle azioni sembra chiamare in scena direttamente certe figure del teatro giapponese. Le ombre dietro i pannelli fanno invece da controparte alla proiezione dell’ombra della studentessa sulle diapositive dei morti nel terremoto del 1923.
Ma la vera particolarità di Yoshida, ciò che lo distingue inesorabilmente dalla Nouvelle vague del cinema occidentale, è il carattere della sensualità e in particolare il modo in cui questa viene rappresentata sullo schermo.
Nel modo in cui Yoshida ha trattato l’eros c’è qualcosa che va ben oltre la provocazione. La volontà è in primo luogo politica: quella di ribaltare una visione prevalentemente maschile della società che in Giappone fino agli anni ’70 aveva dominato. C’è allora un interesse per la femminilità nel cinema di Yoshida, concretizzata appunto nella figura della sua musa, Okada Mariko, che si mostra nella prospettiva femminile adottata. Diversamente da tanti film che hanno provato a fare della donna il centro tematico della narrazione, con i lavori sviluppati da Yoshida, la donna si fa punto di vista sensibile del film, diventa la nostra prospettiva.
A proposito di Joen, afferma infatti Yoshida: “Normalmente i film con una protagonista donna, adottano sempre e comunque un punto di vista maschile. Nella mia ricerca su ciò che avevo chiamato anti-cinema, in quegli anni, cercavo di invertire la situazione: è la donna e sempre la donna a guardare l’uomo e il pubblico”. Nel momento in cui Yoshida mostra un adulterio, come accade in Joen, non lo fa per fare scandalo ma per invertire lo statuto della donna nel discorso comune. E la donna non guarda solo l’uomo, ma appunto, il pubblico. Sono il pubblico e il suo ruolo politico ad essere chiamati in causa.
In Erosu purasu Gyakusatsu, durante l’assassinio dell’anarchico Osugi Sakae, Sokutai Eiko, interpretata da Okada Mariko, osserva la sua morte dal corridoio. È lei ad aver preso in mano il coltello e, dopo, una serie apparentemente infinita di movimenti e scontri, è stata lei a ucciderlo. Dopo il pathos pur volutamente artificioso della scena d’azione, improvvisamente, Yoshida ci mostra con un’oggettiva irreale la donna nel corridoio che osserva la fine di Osugi. Lo fa da una botola posta sul soffitto. In quel momento, la scena dell’assassinio, che era parso una sorta di tragico balletto amoroso, porta in causa lo spettatore. Non possiamo non sentirci posti nella condizione di voyeur di un massacro, come a spiare da un punto nascosto ciò che sta avvenendo. Appena presa coscienza di questa situazione da parte dello spettatore, Sokutai Eiko alza lo sguardo e guarda dritto in macchina.
Ci guarda, evidentemente. In quello sguardo c’è sì un voler dare allo spettatore le sue responsabilità di fronte alla storia, ma c’è, anche e soprattutto, una sorta di complicità. Come se Eiko ammiccasse a un voyeur di cui conosce la presenza.
In quel momento la mise en scène viene messa in crisi, si svela come dire, ma lascia spazio a qualcosa che lo supera. Yoshida non ha come ultimo fine la messa in luce della menzogna del cinema. Abolire, oltrepassare e renderci coscienti del nostro ruolo di spettatori non è che un mezzo per mettere in moto il mezzo cinema in una costante negoziazione con lo spettatore.
Ancora più evidente e straordinaria è una nota scena di Joen. Oriko, sempre la Okada, segue due amici sulla spiaggia e li osserva entrare in una casetta abbandonata. Entra senza farsi vedere e li spia da una finestra su una stanza da letto. Le inquadrature fisse lasciano spazio a una macchina da presa a mano, che non segue il movimento dei corpi sul letto ma pare accompagnarli, farsi complice dello sguardo voyeuristico di Oriko mentre li osserva (e li invidia): la macchina da presa spia. E improvvisamente ogni suono sparisce, nel silenzio più assoluto seguiamo la vista di Oriko su una scena di estrema sensualità, dove la mise en scène viene ancora una volta abbattuta per dare allo spettatore il suo ruolo, quello di spia, cosciente della propria presenza disturbante, in un qualcosa che non gli appartiene. E la sequenza avviene nel silenzio, un silenzio interiore, una sorta di bolla rispetto ai suoni del mondo esterno.
Perché dunque quel silenzio assordante nel cinema di Yoshida? Il trattamento del suono, oltre che del tempo e dello spazio, subisce una destrutturazione che provoca una fascinazione diretta. Mancano, per cominciare, nelle opere di Yoshida, i suoni d’ambiente. Il doppiaggio degli attori pare venire altrove mentre solo certi, pochi rumori si sentono, spesso amplificati: il suono di una macchina da scrivere, di un auto di passaggio, della risacca del mare. Quei pochi suoni evidenziati vengono distorti e assumono un’importanza tale da farsi quasi disturbanti. La potenza di una delle sequenza più sensuali del cinema yoshidiano, quella di Joen descritta sopra, si basa sulla bolla di suono in cui ci costringe a entrare, come intontiti di fronte a qualcosa che nel visivo ha la sua preminenza. In Erosu purasu Gyaksatsu, d’altronde, i due giovani ragazzi che si rincorrono e giocano raccontandosi la storia dell’assassinio di Osugi Sakae urlano, gridano come per rompere quel muro di silenzio, d’incomunicabilità della contemporaneità, diremmo, che Yoshida vuole esprimere.
I giovani contestatori vogliono spaccare il patto funzionale, uscire dalla menzogna istituzionalizzata e osservare il modo in cui la società, nel corso della storia, ha imposto, attraverso le sue sovrastrutture, abitudini e modi di vita, dandone per scontata la validità. Alcuni e solo alcuni suoni sono importanti, come a mostrare l’importanza sempre relativa del punto di vista. Ecco dunque che è proprio nel modo in cui Yoshida tratta l’eros che la potenza politica del suo cinema si mostra.
È un muro di silenzio nei confronti della storia istituzionalizzata che Yoshida, attraverso la sua opera sorprendentemente bella e sensuale, vuole abbattere.
Vedere il cinema, cioè vedere lo schermo lucente nel buio del cinema: un atto così familiare per il quale non ci poniamo alcun dubbio. Il cinema di Yoshida Kiju , tuttavia, ci interroga continuamente su ciò che rappresenta questo gesto così comune. Guardando i suoi film, perciò, non ci impegniamo solamente a “consumare” le storie raccontate dalle immagini e dai suoni, ma anche ad esaminare l’esperienza cinematografica audiovisiva tout court, proprio con i nostri occhi e orecchi in ogni momento.




Affair in the Snow

Juhyo no yoromeki (Il barcollio dell'albero gelato) è un film del 1968, diretto da Yoshida poco prima del suo volontario allontanamento dal cinema, ed interpretato sempre da Okada Mariko.
Yuriko lavora come parrucchiera a Sapporo. Ha una relazione complicata con un insegnante, Akira, incapace di esprimere i suoi sentimenti verso di lei se non con il sesso. Partono per un viaggio, per qualche giorno, ma la macchina si rompe e Yuriko decide che è giunto il momento di rompere con Akira. Crede di essere incinta e non vede un futuro con lui, a causa della sua incostanza. Così cerca consiglio da una vecchia fiamma, Kazuo, che lei non vede da diversi anni. Per Yuriko Kazuo è la persona più fidata che conosce. Quest'ultimo, inoltre, seppur sposato, la ama ancora, ma soffre di impotenza. Alla fine, tra le colline remote nel mezzo di una tormenta di neve, Yuriko dovrà affrontare entrambi gli uomini, giunti lì per lei.
È una storia un po' complicata...
Yuriko vuole scappare lontano da Akira, lo vuole fuori dalla sua vita, perché tra di loro non c'è nulla, tranne il sesso. È Kazuo quello che vuole davvero, ma sa della sua impotenza e si chiede se potrà mai esserci un futuro tra di loro, senza contare che oramai è un uomo impegnato...
È un continuo rincorrersi Affair in the Snow (questo il titolo internazionale del film che ben poco ha a che vedere con il titolo originale, ma che prende spunto dalla scena più bella dell'opera e dalla sua ambientazione).
Prima è Akira a fuggire nella tempesta, disgustato dal pensiero di una relazione tra Kazuo e Yuriko, ma anche terrorizzato dal pensiero che il rivale può dare alla sua donna ciò di cui egli non sarà mai capace: amore... Kazuo preso dal rimorso convince Yuriko a seguirlo per portarlo indietro...
Poi i ruoli si invertono. Adesso è Akira ad inseguire Kazuo e Yuriko, in uno scenario che, coadiuvato da una bellissima fotografia e dall'uso del bianco e nero, risulta accecante e che apre la strada al tragico finale. Tornare indietro è impossibile, Yuriko lo sa, alla fine non ci resta altro che restare soli...
I personaggi di questo film sono astrazioni. Sono fantasmi gettati con violenza nel mondo reale. Anche i sentimenti che traspaiono dal film di Yoshida sono alquanto astratti... È un concretizzarsi del concetto di anti-cinema. Un film non racconta della vita reale e quindi se le leggi che governano il mondo del cinema non sono vere per noi allora come può ogni altra cosa esserlo?
Sembra quasi di essere di fronte alla celebrazione di un rituale, dove la stilizzazione delle singole azioni e dei sentimenti predomina.
Certo la regia è perfetta, anche perché pur non essendo in presenza del miglior film di Yoshida, qui siamo davanti ad una delle sue opere più mature e l'uso della telecamera, per lo più in spalla, e di lunghissime carrellate lascia il segno. Le immagini sono meravigliose e la recitazione è ottima. Naturalmente su tutti spicca la Okada, con la sua struggente bellezza...
Juhyo no yoromeki è un'opera cinematografica a tutti gli effetti, una festa per gli occhi, un capolavoro ed una dimostrazione dell'estrema perizia formale di Yoshida. Forse perduti tra le nevi, noi stessi ad inseguire Yuriko, Kazuo ed Akira, sentiamo un po' di freddo e la mancanza del calore che certo cinema sa dare, ma restiamo comunque soddisfatti di fronte all'incredibile spettacolo di cui siamo testimoni.
Che sia cinema o anti-cinema poco importa...




:em41:Ringrazio di cuore Danilo aka Shimamura81 per l'accuratissima recensione :em41:

BUONA VISIONE

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Messaggio modificato da fabiojappo il 21 February 2020 - 06:12 PM

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#2 battleroyale

    Kimkidukkiano Bjorkofilo

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Inviato 17 June 2011 - 12:41 PM

Miooooo! :) :em66: :em66: :em41: :em41:

Grazie amica anna! :em15: :em28: :em28: :em28:
Sweet Like Harmony, Made Into Flesh... You dance by my side, children sublime!


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L'altro Cinema: Drawing Restraint 9 , La Concejala Antropofaga, Subjektitüde

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#3 ronnydaca

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Inviato 17 June 2011 - 12:57 PM

Grazie Annuzza. Prendo e metto in archivio. Film che mi affascina già dalle foto.
Grazie anche a Shima, ma la rece la leggerò in seguito con calma.
Sullo schermo mi si sfondano gli occhi. Secondo me le rece di Shima sono da stampare e conservare. ;-)

In attesa di migrazione


#4 fabiojappo

    Regista

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Inviato 17 June 2011 - 01:19 PM

Grazie Anna, le tue sono sempre proposte di alto livello :) :em66: :em66:

(Cavolo che recensione lunga, da record !!! Meglio fare un pdf a parte in questi casi, secondo me. Senza offesa per Shima e il suo ottimo lavoro che leggerò con interesse)

Messaggio modificato da fabiojappo il 17 June 2011 - 01:36 PM


#5 Cignoman

    Direttore del montaggio

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Inviato 17 June 2011 - 01:47 PM

Ottimo lavoro, ragazzi! ! ! :em41:

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#6 LL ©

    Cameraman

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Inviato 17 June 2011 - 03:19 PM

molto, molto interessante !
grazie ad entrambi Immagine inseritaImmagine inserita
SOTTOTITOLI TRADOTTI
🇯🇵 Tomato kecchappu kôtei / Shūji Terayama / 1970🇪🇸 Honor de cavallería / Albert Serra / 2006 ◦ 🇫🇷 Un chapeau de paille d'Italie / René Clair / 1927 ◦ 🇮🇹 Thaïs (versione francese) / Anton Giulio Bragaglia / 1916

"Le cinéma est une invention sans avenir" (Louis Lumière)

Decorato al petto di rarissima medaglia di Uomo Tette™ dal Reverendo lordevol in data 08/07/2013

#7 Picchi

    Operatore luci

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Inviato 17 June 2011 - 05:12 PM

Grazie anna! Questo regista mi sembra di averlo già visto da qualche parte... eheh XD

Grazie anche al dott. Shima per il papiro di recensione :em41:

"猿も木から落ちる" (Anche le scimmie cadono dagli alberi)





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#8 Shimamura

    Agente del Caos

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Inviato 25 June 2011 - 09:51 PM

Grazie a te annarè per la splendida trauzione e per i titoli che ci proponi!!!
Yoshida è un autore che meriterebbe l'opera completa tradotta in italiano!!!

Visualizza Messaggioronnydaca, il 17 June 2011 - 12:57 PM, ha scritto:

Grazie anche a Shima, ma la rece la leggerò in seguito con calma.
Sullo schermo mi si sfondano gli occhi. Secondo me le rece di Shima sono da stampare e conservare. ;-)

Grazie ronny! :em41: e grazie a tutti voi anche!

Visualizza Messaggiofabiojappo, il 17 June 2011 - 01:19 PM, ha scritto:

Meglio fare un pdf a parte in questi casi, secondo me.

Non so se varrebbe la pena, ma magari in futuro o nella mia firma potrei farlo...

Messaggio modificato da Shimamura81 il 25 June 2011 - 09:51 PM

Hear Me Talkin' to Ya




Subtitles for AsianWorld:
AsianCinema: Laura (Rolla, 1974), di Terayama Shuji; Day Dream (Hakujitsumu, 1964), di Takechi Tetsuji; Crossways (Jujiro, 1928), di Kinugasa Teinosuke; The Rebirth (Ai no yokan, 2007), di Kobayashi Masahiro; (/w trashit) Air Doll (Kuki ningyo, 2009), di Koreeda Hirokazu; Farewell to the Ark (Saraba hakobune, 1984), di Terayama Shuji; Violent Virgin (Shojo geba-geba, 1969), di Wakamatsu Koji; OneDay (You yii tian, 2010), di Hou Chi-Jan; Rain Dogs (Tay yang yue, 2006), di Ho Yuhang; Tokyo Olympiad (Tokyo Orimpikku, 1965), di Ichikawa Kon; Secrets Behind the Wall (Kabe no naka no himegoto, 1965) di Wakamatsu Koji; Black Snow (Kuroi yuki, 1965), di Takechi Tetsuji; A City of Sadness (Bēiqíng chéngshì, 1989), di Hou Hsiao-hsien; Silence Has no Wings (Tobenai chinmoku, 1966), di Kuroki Kazuo; Nanami: Inferno of First Love (Hatsukoi: Jigoku-hen, 1968) di Hani Susumu; The Man Who Left His Will on Film (Tokyo senso sengo hiwa, 1970), di Oshima Nagisa.
AltroCinema: Polytechnique (2009), di Denis Villeneuve ; Mishima, a Life in Four Chapters (1985), di Paul Schrader; Silent Souls (Ovsyanky, 2010), di Aleksei Fedorchenko; La petite vendeuse de soleil (1999), di Djibril Diop Mambéty; Touki Bouki (1973), di Djibril Diop Mambéty.
Focus: Art Theatre Guild of Japan
Recensioni per AsianWorld: Bakushu di Ozu Yasujiro (1951); Bashun di Ozu Yasujiro (1949); Narayama bushiko di Imamura Shohei (1983).

#9 polpa

    It’s Suntory Time!

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Inviato 25 June 2011 - 10:21 PM

Elegante, ipnotico, sembra ghiaccio ma ribolle dentro.
Un gran bel Yoshida.





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