WILL TO LIVE
Titolo originale: Ikitai 生きたい
Titolo internazionale: Will to Live
Nazionalità: Giappone
Anno: 1999
Durata: 119'
Genere: Drammatico / Grottesco / Commedia
Sceneggiatura e regia: Shindo Kaneto
Musiche originali: Hayashi Hikaru
Produttore esecutivo: Shindo Jiro
Fotografia: Miyake Yoshiyuki
Luci: Yamashita Hiroshi
Suono: Take Susumu
Scenografie: Shigeta Shigemori
Montaggio: Watanabe Yukio
Traduzione e recensione di Cignoman
Revisione a cura di fabiojappo
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[versione: Ikitai 1,36]
Sinossi:
L'anziano Yasukichi soffre di incontinenza fecale e la sua presenza ormai è a malapena tollerata dai suoi figli così come dalla sua ex amante, tenutaria di un bar. Ispirato dalla lettura del libro "La leggenda del monte Obasute", che narra di un remoto passato in cui in Giappone gli anziani venivano abbandonati a morire su di una montagna per non essere un peso per il loro villaggio, cerca di autoconvinversi della necessità di ritirarsi dal mondo, per quanto la sete di vita (ikitai, nel titolo) lo animi ancora. La situazione lo pone in conflitto in primis con la figlia maniaco depressiva Tokuko, con cui vive, ma il loro rapporto andrà incontro ad un'evoluzione.
"Will to Live" è un film a cui tengo particolarmente poiché, nonostante sia stato realizzato ormai 13 anni fa, ci riguarda da vicino. In questo senso possiamo parlare senza dubbio di un opera lungimirante. Uno degli aspetti socioeconomici che accomuna FORTEMENTE il lontano Giappone e la nostra Italia è l'età media degli abitanti: 44 anni il "paese del sol levante" e 43 anni il "bel paese del sole", due delle nazioni più "anziane" del mondo. Questo dato pone una pesante ipoteca sulle spalle tanto del popolo giapponese quanto di quello italiano. Kaneto Shindo in questo film, costruito con intelligenza e acume, ci pone di fronte alle ipocrisie e agli egoismi di un mondo individualista che vede gli anziani sostanzialmente come un fardello ingombrante, un onere di cui sbarazzarsi in fretta. I toni non sono quelli del dramma o del banale umanitarismo, però, bensì quelli della farsa: in questo ho ravvisato un parallelo con le opere di Juzo Itami, altro grande regista giapponese, paradigmatico autore in grado di veicolare riflessioni sulle ipocrisie della società contemporanea attraverso lo humor, le situazioni grottesche, il ritmo di una sceneggiatura che riesce ad intrattenere oltre che far riflettere.
Il personaggio di Yamamoto Yasukichi è straordinariamente ben congegnato, un uomo che recita costantemente tra due registri: da un lato dichiara di sposare le tesi pragmatiste della società che vuole liberarsi degli anziani, dall'altro mendica la compassione per la sua condizione, in nome di quell'istinto vitale che dà il titolo al film ed è quel qualcosa che accomuna tutti gli esseri umani e li pone, in fin dei conti, sullo stesso piano. Attraverso la lettura del libro "La leggenda del monte Obasute", tenta di autoconvincersi di come sia nobile e disgnitoso per un vecchio ormai inutile ritirarsi a morire sul monte Obasute (la versione arcaica dei nostri ospizi per anziani) e tenta di convincere gli altri di aver sposato questa visione delle cose, cinica ma "razionale". Eppure i suoi stessi atti lo smentiscono perché l'istinto vitale è insopprimibile: pieno di contraddizioni, un personaggio che non si può non amare, proprio perché è un piccolo piccolo uomo, posto davanti allo squallore dell'ineluttabile decadenza e alla paura della morte.
Il duetto di Mikuni Rentaro con Otake Shinobu, che nel film recita la parte di Tokuko la figlia maniaco depressiva di Yasuchichi, è strepitoso. Tokuko incarna la psicosi di una società individualista in cui tutti sembrano smarriti nella folle ricerca della felicità, tra desideri illusori, vacui e sostanzialmente egoistici che portano inevitabilmente a fasi di esaltazione e di depressione. La differenza tra lei e i suoi fratelli sembra essere solo questa, in definitiva: lei soffre perché conserva ancora l'umanità dentro di sé, mentre loro sono "sani" perché perfettamente egoisti. Il rapporto con il padre è pieno di ambivalenze e andrà incontro ad un'evoluzione positiva, un barlume di speranza, per un finale letteralmente "col botto".
Kaneto Shindo dipinge anche con ironia nera, spietata e graffiante il mondo degli ospedali e delle cliniche per anziani, dominate dalla logica del profitto: dalla viva voce del dottore interpretato da Emoto Akira verrà spiattellata la verità nuda e cruda di un universo in cui la "sacra missione" della medicina è stata totalmente accantonata. Leggendo il libro sulla leggenda del monte Obasute (in Italia "Le canzoni di Narayama" di Fukazawa Shichiro, trasposta nei leggendari capolavori di Kinoshita Keisuke e Imamura Shohei), Yasuchichi evoca nella sua immaginazione le vicende narrate, le quali ci vengono mostrate attraverso sequenze in bianco e nero, costantemente condite dal sapore della farsa, intrise di un humor nero davvero gustoso. La straordinaria nota grottesca che dà l'impronta a tutto il film nasce dal confronto stridente tra un lontano passato di miseria rurale (mitizzato nella retorica dei giorni nostri) in cui abbandonare gli anziani in pasto ai corvi rientrava nella logica dell'arcaica lotta per la sopravvivenza e un presente di opulenza e individualismo in cui abbandonare gli anziani è semplicemente un atto di egoismo. Tokuko, inseguendo il mito della sua libertà riuscirà a confinare il padre nell'ospizio, accorgendosi proprio così del vuoto che ha lasciato nella sua vita. Nel mitico passato del romanzo sul monte Obasute, Kuma porta sulle spalle la madre come prevede la tradizione nel luogo dove resterà a morire e, pur soffrendo moltissimo nel lasciarla lì, vincerà la sua pietà filiale e tornerà al villaggio da solo. Tokuko, all'opposto, dapprima contentissima di liberarsi del padre, tornerà a prenderlo e lo porterà sulle spalle verso casa, specularmente rispetto al libro. Poi sarà suo padre a caricarsela sulle spalle, quasi a sancire che un vero legame solidale è quello in cui ciascuno porta anche il fardello dell'altro sulle proprie spalle.
Raccomando fortemente di rivedere il meraviglioso film di Imamura Shohei (vincitore della Palma d'Oro a Cannes nel 1983, distribuito in dvd in Italia da Rarovideo) per gustare appieno queste sequenze di "Will to Live" che gli fanno "il verso", per così dire.
Al minuto 3' 48'' del film potete apprezzare un primo piano di quella che sembra proprio essere una allora giovanissima e ora notissima KIKUCHI RINKO.
OBASUTE (姥捨て): in giapponese letteralmente significa "abbandonare una vecchia" e si riferisce ad un'antica leggendaria usanza fortemente ritualizzata per la quale gli infermi e gli anziani venivano abbandonati in un luogo sacro a morire. Sembra far riferimento allo stesso immaginario legato al viaggio nell'aldilà sulla Osoresan (恐山 la "montagna dei morti") compiuto dalle anime dei defunti, dagli asceti e dalle sciamane. Alcuni studiosi sostengono che la leggenda nata riguardo a queste pratiche sia stata mutuata dalla letteretura buddhista indiana. Non è chiaro fino a che punto sia stata una pratica istituzionalizzata, ma presumibilmente era adottata in periodi di carestia, così come parallelamente la pratica del mabiki (間引き) per il controllo delle nascite. Di certo ha lasciato molte testimonianze nel folklore dei racconti popolari, delle poesie, delle leggende e di alcuni koan (aneddoti) buddhisti. Da questo patrimonio folkloristico lo scrittore Shichiro Fukazawa ha tratto nel 1956 il racconto "Le canzoni di Narayama", vincitore del prestigioso Premio Chūōkōron ed edito in Italia da Einaudi. Il vero monte Obasute ( 姨舍山) si trova a Chikuna, nella prefettura di Nagano.
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Messaggio modificato da fabiojappo il 06 June 2014 - 04:42 PM